7. Per concludere
di Aldo Badini
Attorno a sei parole: rete, relazione, evoluzione, impegno, responsabilità, amore.
L’ampiezza e la densità dei temi trattati rende davvero problematico il tentativo di annodare i fili dei discorsi, perché occorre dipanarli da una matassa quanto mai aggrovigliata e poi intrecciarli, se non in una trama, almeno in una ipotesi di rete che connetta le molteplici e differenti suggestioni emerse dai diversi contributi. A soccorrere tale tentativo è opportuno sintetizzare attraverso alcune parole chiave che, se non bastano a esaurire la ricchezza e la varietà degli approcci che possono emergere quando si affronta un argomento di tale portata, ne possono almeno suggerire qualche spunto.
La prima di queste parole è certamente rete, tanto che la sua immagine è stata proposta piú volte, fino a divenire la principale chiave di lettura di una realtà rappresentabile come una diffusa e articolata interrelazione tra viventi e ambiente, ove l’ecosistema e la sua intelligenza collettiva è ben piú potente del singolo individuo (Enrica Brunetti). Non a caso questo modello interpretativo della rete si è diffuso nel nostro modo di pensare il mondo, sostituendosi ad altri che nel corso dei secoli lo hanno preceduto: da quello – rassicurante e caro al medioevo cristiano – di un ordinato sistema di sfere concentriche, fino all’universo quale mirabile e complesso meccanismo, aggiornato in tempi piú recenti con la metafora del cervello elettronico.
È un’idea, questa della rete, che sembra essersi radicata nel magistero e nel pontificato di papa Francesco, il quale, appunto, indica nella relazione la modalità costitutiva della stessa Trinità. E quanto la relazione possa essere assunta come seconda parola chiave, lo mostra una intuizione di Raimon Panikkar, che vede l’esistente come una creazione cosmoteandrica, nella quale si intrecciano le componenti divina, umana e naturale (Ugo Basso).
Se da una impostazione filosofico-religiosa si assume una diversa angolatura che guardi al problema da una prospettiva di tipo scientifico, si può osservare l’esistenza di una importante analogia tra i sistemi di relazioni biologici e sociali, consistente nella loro apertura e dinamismo, due qualità che li orientano in una continua evoluzione. Però il concetto veicolato da questa terza parola richiede una attenta distinzione, dal momento che la velocità di rinnovamento dei sistemi naturali è molto minore di quella dei sistemi sociali, che esistono solo utilizzando le risorse dei primi e in ultima analisi consumando e depauperando l’ambiente di cui e in cui vivono (Dario Beruto).
Quando tale processo diventa irreversibile, la rottura degli equilibri può avere sviluppi drammatici, puntualmente registrati da antiche e nuove vicende storiche. La fiorente età del bronzo che, secondo i recenti studi di un eminente archeologo americano1 era evoluta e raffinata al punto da creare un mondo globalizzato su tre continenti, collassò rapidamente verso gli inizi del XIII secolo aC, lasciando dietro di sé un lungo e oscuro medioevo. Un’altra frattura si verificò milleseicento anni dopo, con il declino e il tramonto della civiltà grecoellenisticoromana. Quasi preavvertendo la crisi, intorno alla metà del III secolo cosí scriveva Cipriano da Cartagine:
Il mondo invecchiato non ha piú l’antico vigore… l’inverno non ha piú sufficienti piogge per nutrire le sementi, né l’estate abbastanza sole per maturare le messi…, le montagne sventrate danno meno marmo, le miniere spossate meno oro e argento…, i campi mancano di coltivatori, il mare di marinai, gli accampamenti di soldati; non c’è piú giustizia nei giudizi, non c’è piú competenza nei mestieri, né disciplina nei costumi…; l’epidemia decima il genere umano…, il giorno del Giudizio si avvicina.
Noi sappiamo che nessun Dies Irae ha travolto il mondo, né allora né in seguito; ma pur concedendo al santo vescovo africano il gusto retorico dell’amplificazione, non possiamo ignorare che un male profondo e insidioso stava minando il suo mondo, e che quel mondo in effetti scomparve nel volgere di un tempo relativamente breve. Oggi gli allarmi di una possibile grave crisi ecologica suonano insistentemente e gli spiriti piú lucidi non mancano di ricordarci, dagli inizi della rivoluzione industriale in poi2, che la terra è esistita per miliardi di anni senza l’uomo e che potrà tranquillamente farne a meno per altrettanti. Tra l’altro, ricordava anni fa Claudio Magris, i deserti di Plutone e i gas venefici non sono meno natura dei fiori e delle colline toscane, fermo restando che certe condizioni ambientali sono propizie alla nostra specie e altre no.
E allora, se vogliamo continuare a godere del nostro pianeta ci corre l’obbligo di conservare al meglio ciò che ci è stato donato, per noi e per quanti verranno dopo di noi. Da qui la necessità di impegno e responsabilità, da parte di tutti, per mantenere e innalzare la qualità della vita (Dario Beruto). Complementare a questo binomio, che si può evidenziare come quarta e quinta parola chiave, è essenziale il sesto termine di educazione: un’educazione al fare, quale sola via per tentare uno sviluppo sostenibile, una vera giustizia tra generazioni e una continua tensione al bene comune (Dante Ghezzi). È utopia? Ma di un orizzonte utopico c’è disperato bisogno per ricucire la stoffa dell’uomo e per continuare a coltivare una speranza responsabile (Vito Capano).
A sostenere questo sforzo può concorrere la religione: è vero che tanto l’ebraismo quanto il cristianesimo sono marcatamente antropocentrici, ma la Bibbia insegna anche il rispetto verso la terra e spinge l’uomo alla triplice relazione con Dio, con il prossimo e con la natura, in una circolarità d’amore che trae origine da un Dio che crea e genera (Luisa Riva). Amore è dunque l’ultima parola chiave, perché, se è vero che il male permane come scandalo ineliminabile che tocca non solo l’uomo, ma tutti gli esseri viventi interrompendoli nella morte – «persistenza è solo l’estinzione3», ricordava Montale –, è altrettanto certo che si può e si deve agire perché ci sia meno male, e anche di questo sforzo la storia conserva la traccia e testimonia molti indubitabili successi.
È una traccia labile, a volte, ma ben visibile a chi la sa cercare senza pregiudizi, e forse nulla meglio della grande poesia ha saputo individuare il bene che permea di sé l’universo. Nel trentatreesimo canto del Paradiso il pellegrino Dante, pervaso di una altissima grazia che gli consente di spingere lo sguardo nella luce eterna di Dio, in un supremo slancio di conoscenza vede il segreto dell’esistente e coglie la profonda relazione che lega in una trama d’amore il creatore e le creature. Con una penetrante metafora il personaggio poeta comprende il vincolo che unisce i mille fogli delle cose contingenti sparsi (squadernati, dice propriamente l’autore) per l’immensità del cosmo, nel grande volume di una Sapienza unificante:
Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume
ciò che per l’universo si squaderna;
sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dico è un semplice lume
(Paradiso XXXIII, 85-90).
Al raggio consolatore della bellezza poetica l’amore è il vincolo che raccoglie l’infinita varietà delle cose e le cuce insieme, disponendole in un tutto ove coesistono pluralità e unità, contingenza e necessità, creatore e creature. Un Libro, dunque, o se vogliamo tornare all’immagine da cui siamo partiti, una rete di relazioni. E allora forse, se abbiamo conservato la capacità di stupirci e di commuoverci, anche noi potremmo consentire con la terzina successiva e concludere con il poeta
La forma universal di questo nodo
credo ch’i’ vidi, perché piú largo
dicendo questo, mi sento ch’i’ godo
(Paradiso XXXIII, 91-93).