Mi compiaccio

di Enrico Gariano

 

Un bel po’ di anni or sono, in una casa di spiritualità, conobbi un prete di Milano. Egli mi raccontò di essere il segretario del cardinale Carlo Maria Martini o meglio, di essere uno dei suoi segretari in quanto il presule, per i tantissimi impegni dovuti alla vastità della diocesi, aveva necessità di diversi segretari. Uno dei compiti che gli era stato affidato consisteva nello scrivere prefazioni per libri di autori diversi, per lo piú di preti, che poi il cardinale avrebbe firmato come sue. In un primo momento questa pratica mi aveva lasciato piuttosto perplesso: avevo l’impressione di essermi trovato di fronte a una mistificazione o, quantomeno, a una mancanza di sincerità.

Però, via via che lui proseguiva nel racconto, constatai che quel sant’uomo del cardinale, era letteralmente assediato, ossessionato, perseguitato da richieste di prefazioni. Evidentemente, data la sua fama di insigne studioso, avere un suo scritto di presentazione rappresentava agli occhi degli autori, una sorta di passaporto per il successo o, almeno, la speranza per un maggior numero di copie vendute.

Il cardinale chiedeva comunque al segretario incaricato che gli riassumesse in poche parole il contenuto del futuro libro e se lo scritto avesse effettivamente un qualche valore. Solo con risposta affermativa, sottoscriveva la prefazione che poi sarebbe stata consegnata all’editore o al diretto interessato.

Perché questa introduzione? Perché oggi, leggendo il libro di Antonio Padellaro Il fatto personale (parafrasi del titolo del giornale ll fatto quotidiano, da lui fondato unitamente a Peter Gomez e Marco Travaglio) mi sono imbattuto, a pagina 145, in una divertente descrizione del comportamento di un altro illustre personaggio, Eugenio Scalfari che, evidentemente, essendo anche lui subissato non tanto da richieste di prefazioni bensí di recensioni, aveva escogitato due paroline magiche al fine di liberarsi in fretta dei queruli postulanti.

«Ai tempi in cui ero all’Espresso Scalfari mi raccontava di essere continuamente infastidito dalla copiosa produzione di libri di colleghi e sottoposti. Diceva di avere gli scaffali del suo ufficio ricolmi di volumi perlopiú inutili. Ma la cosa peggiore erano le molestie degli autori che, dopo aver prodotto quei capolavori, pretendevano da lui un giudizio, possibilmente benevolo. Lui, che le pagine di quei tomi lasciava inevitabilmente intonse, per togliersi di dosso quei rompicoglioni mi confidò di avere adottato una formula ineccepibile, composta dalle due magiche parole: «Mi compiaccio». Espressione, mi spiegò, cortese, perfino amichevole, ma che di per sé non esprime alcun giudizio di merito sugli scritti dei sedicenti Proust i quali, ricevuta l’augusta benedizione, si allontanavano lusingati e confusi non avendo ben compreso se l’esame fosse stato superato.
Poi capitò a me di dare alle stampe un libro e la prima volta che incrociai Eugenio dopo la pubblicazione… fu lui a venirmi incontro, a stringermi la mano e a pronunciare l’inevitabile verdetto: «Caro Antonio, ho ricevuto il tuo volume, mi compiaccio».

Morale? No, solo un consiglio. Se un domani dovessimo scrivere un libro, evitiamo di perorare altisonanti prefazioni o ricerche di benevole recensioni. Se il testo vale, il libro si farà strada da solo.