I giovani al centro

di Luisa Riva

I giovani, la fede e il discernimento vocazionale sarà il tema del prossimo sinodo dei vescovi convocato per l’ottobre del 2018.
È sempre difficile affrontare una riflessione che prende in esame un’intera categoria, in questo caso i giovani, le generalizzazioni diventano inevitabili e, se da una parte aiutano a tracciare un quadro di riferimento, dall’altra possono facilmente trasformarsi in stereotipi o banalizzazioni che oscurano invece di illuminare il quadro.
Il sinodo è stato annunciato e si stanno preparando materiali di lavoro, fra cui il principale è il documento preparatorio: nella prima parte si traccia una sintetica, ma articolata panoramica della attuale condizione giovanile mondiale evidenziando le differenze, anche notevoli, che le diverse realtà sociali, economiche e culturali presentano. Io vorrei soffermarmi ora sull’espressione «condizione di vulnerabilità », riconosciuta ai giovani, che può essere determinata da ragioni economiche, emarginazione sociale, perdita di legami affettivi, incertezza del futuro. Questa condizione, tipica dell’umano, ma particolarmente presente nella prima fase della vita, mi fa pensare a due aspetti che la vulnerabilità rivela: la fragilità certamente, ma anche l’apertura direi fiduciosa verso gli altri, in particolare gli adulti, cosí spesso tradita, questo richiama subito il concetto di responsabilità alla quale tutti noi siamo chiamati.
Rivolgersi ai giovani mi pare voglia dire soprattutto accompagnarli nella scoperta della vita, sollecitarli a farsi domande, cercare risposte per assumersi la propria vita e progettarla, non semplicemente viverla. Un’impresa difficile per ogni uomo e donna, ma direi esaltante e la parola non è eccessiva di fronte al dono e al mistero in cui siamo. E dovrebbe essere cosí non solo per i piú fortunati.
La chiesa oggi si interroga sui giovani, sul suo rapporto con loro, sul linguaggio con il quale comunicare e il sinodo dei vescovi dovrebbe essere il luogo privilegiato. Io penso che, come in tutte le relazioni, conta un ascolto vero, una presenza fatta di esperienze con adulti disponibili alla fatica che la coerenza al messaggio evangelico richiede. Occorre innanzitutto essere interlocutori credibili, e questo riguarda anche ciascuno di noi, che permettono alla coscienza dei ragazzi di crescere e scoprire la bellezza e la libertà di essere figli di Dio. Siamo chiamati, è vero, a una pienezza di vita, come piú volte il testo preparatorio ricorda, ma sottolineerei il «già e non ancora» che sicuramente caratterizza piú frequentemente le nostre vite e spesso non è facile da comprendere, non solo da parte dei giovani, e soprattutto nella nostra società dove il mito della piena realizzazione di sé ha reso le persone fragili di fronte alle inevitabili frustrazioni. Una realizzazione, però, rispetto a modelli effimeri e discutibili.
La proposta evangelica ci invita a una fede adulta, interpella le nostre emozioni e la nostra intelligenza: l’impegno sociale e per la giustizia è particolarmente sentito dai giovani, ed è inscindibile dall’esperienza cristiana, ma la domanda sul nostro credere deve essere posta e trovare alimento in percorsi di formazione anche esigenti. Il confronto con la cultura contemporanea troppo spesso è stato vissuto con diffidenza perdendo cosí occasioni di arricchimento e di contatto con esperienze di ricerca e di scoperta sull’uomo stesso.
Come ricorda il documento che stiamo considerando, soprattutto nelle cosiddette società avanzate, l’esperienza dei giovani si svolge in contesti caratterizzati dal disinteresse per qualunque problema connesso con la trascendenza, nell’indifferenza verso l’ipotesi di Dio, piuttosto che in una consapevole opposizione o rifiuto. Ma come nel deserto ci si porta l’essenziale, forse possiamo cogliere questa occasione per ripensare a una proposta di fede libera dalle incrostazioni storiche che hanno pesantemente oscurato il messaggio di Cristo, quella gioia dell’evangelo di continuo richiamata da Francesco e di fatto hanno favorito l’allontanamento dalla chiesa.
La ricerca di un linguaggio capace di parlare ai giovani, a cui si fa riferimento, non può limitarsi all’uso dei nuovi social media o a espressioni meno formali: un nuovo linguaggio vuol dire un nuovo modo di affrontare i problemi, comprendere ed esprimere la nostra esistenza in tutte le sue dimensione fra cui quella della fede. Il linguaggio è sempre anche espressione di un modo di essere.
Un’ultima considerazione che mette in discussione il tono complessivo di questo documento. All’inizio si legge: «La vocazione all’amore assume per ciascuno una forma concreta nella vita quotidiana attraverso una serie di scelte che articolano lo stato di vita (matrimonio, ministero ordinato, vita consacrata, ecc.)…». Questo modo di declinare le forme di vita via via possibili nell’esperienza di ciascuno è tipico del linguaggio ecclesiastico che legge la vocazione nelle tre modalità esplicitate nella parentesi, seguite da un vago, e imbarazzato, ecc.
Domando: ma la vocazione, la chiamata non è quella fatta a ciascun uomo e donna a crescere nella sua umanità di fronte a Dio e nella relazione con i fratelli? Persone e cristiani, prima che mariti, mogli, preti e suore senza cosí escludere, o non sapere come nominare, tutti gli altri?