2017 ottobre

Siamo meno a disagio nel trattare i temi riferiti all’aldiqua ma, messi alle strette dal chiudere gli occhi a questo mondo di tante persone a noi care, ci interroghiamo sull’esito di tali sguardi. Abbiamo l’intima, viva, speranza che tali sguardi non siano perduti, ma nessuno ha certezze in proposito e ammettiamo la nostra smarrita ignoranza sul «paese inesplorato dal cui confine nessun viaggiatore fa mai ritorno» (W. Shakespeare, Amleto). Tuttavia, le religioni fondano nella fede una speranza di eternità o, come nella cristiana, di resurrezione, in una realtà inesplorata, ma comunque consolante. Sappiamo che accanto a chi si riconosce in questa, c’è chi non si pone il problema; chi, senza certezze, non esclude ipotesi di cui avverte il desiderio; chi nega razionalmente qualunque ipotesi e non si aspetta nulla oppure si aspetta proprio il nulla.

La Scrittura cristiana parla di resurrezione, ma l’abitudine alla razionalità ci è d’inciampo nella lettura delle parole di Paolo «seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; seminato nella miseria, risorge nella gloria; seminato nella debolezza risorge nella potenza; seminato corpo animale, risorge corpo spirituale» (1Cor 15, 42-44). È difficile quindi anche solo parlare di resurrezione della carne, e qualcuno, prudenzialmente, aggiunge: qualsiasi cosa questo significhi.

L’inevitabile coinvolgimento della sfera emozionale ha poi dato figura nell’immaginario collettivo, nell’arte e nella letteratura a timori e a speranze, a consolazioni e a minacce, creando per l’aldilà scenari piú o meno danteschi con cui dobbiamo confrontarci. Ci facciamo, infatti, anche noi idee in proposito suggerite da ineludibili sensazioni, sogni o incubi: idee non proprio coincidenti se pensiamo ai nostri cari, a noi stessi, o ad altri.

Il senso di vuoto lasciato dai nostri cari ci dispone facilmente alla speranza di una qualche compensazione che veda effondersi in uno sperato consolante altrove il bene perduto.

Per noi stessi siamo piú inclini a pensare – se non temere – il giudizio di cui parla l’Evangelo quando, per esempio, dice che «alla fine dei tempi verrà separato il grano dal loglio» (Mt 13), chiedendoci se siamo persone grano o persone loglio oppure, ancora, se ciascuno non sia un misto di grano e loglio. Leggiamo anche: «Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato» (Lc 12, 2) e potremo quindi essere persino atterriti per irrimediabili inadempienze o distrazioni, di conseguenze imponderabili, di cui non abbiamo piú memoria. Ma leggendo il salmo 130, 3, «chi potrà reggere, se il Signore vorrà tenere conto di tutte le nostre colpe?», siamo confortati dalla nozione di infinita misericordia.

Per gli altri, questa misericordia ci esorta quindi a non aspettarci che un nostro paradiso possa consistere nel vedere condannato chi giudichiamo ingiusto, e la sovrabbondante misura di tale misericordia, che ha fatto supporre che l’inferno esista, ma sia vuoto, ci metterebbe a riparo anche dall’eventualità che il vedere la salvezza di chi avremmo condannato diventi a noi un nostro simmetrico inferno.

Una tale riflessione ci può infine accompagnare a un lavoro di purificazione da fantasie o da paure guardando la promessa del Cristo come esaltazione della vita, e nei momenti in cui siamo scossi da una perdita, essere proposta di fiducia e invito a non disperdere, non semplificare, perché siamo in un mondo di relazioni in cui tutto è importante.