Solo tre affermazioni

di Silviano Fiorato

Mi avvicino ormai al completamento della nona decade di vita; è l’età di un bilancio della propria esistenza, delle sue vicissitudini e dei ripensamenti, anche critici, dei propri pensieri e della loro evoluzione. Per questo mi è venuta voglia di scrivere queste righe, con lo spirito di una confessione, esprimendo una progressiva modifica del mio modo di credere, al di fuori degli schemi canonici.
Mi riferisco principalmente alla formula del Credo tridentino, recitato in coro nelle chiese cattoliche durante le messe festive.
Da parecchi anni ho ridotto sempre piú le parole da me pronunciate nella recita del Credo, omettendo quelle che ritengo frutto di riflessioni teologiche codificate nei secoli, ma, a mio parere, del tutto discutibili e comunque non essenziali. Per essere sincero con me stesso e verso gli altri, sono arrivato, forse un po’ troppo drasticamente, a condividere solo tre affermazioni: «Credo in Dio Padre», «in Gesú Cristo», e «nella vita eterna», omettendo tutto il resto.
Per mia consolazione, ho conosciuto un prete di grande cultura e di grande umanità che aveva scritto un credo del tutto diverso da quello in uso e lo aveva recitato durante la messa, anche se solo per qualche volta.
Ritengo comunque che ognuno di noi debba avere un proprio modo di credere e che non possa né debba delegare altri nella Chiesa a essere intermediari tra lui e Dio.
Il primo ostacolo nella recita del Credo era stata per me la parola onnipotente, mitologicamente attribuita al Creatore: la ritenevo una bestemmia verso il Dio Padre, che è amore nella sua essenza; che è l’essenza stessa del messaggio cristiano; e che, come l’amore umano, può anche essere sofferenza, quando non riesce a sollevare gli altri dalla loro pena. Quale padre non darebbe al figlio il «pane quotidiano», anche senza esserne richiesto? E tanto piú se gli mancasse per colpa sua?
È ben vero che Dio ci ha dato completa libertà di pensiero e di azione, e quindi anche di scegliere il male; ma comunque, come ogni padre e ogni madre, farebbe tutto quanto è in suo potere per evitargli le piú grandi sofferenze. Non possiamo, con la nostra piccola mente, immaginare l’imperscrutabile disegno di Dio di fronte alla richiesta di Gesú nel Gethsemani; ma se la ragione che Dio stesso ci ha dato non è vana, non possiamo che negare la sua onnipotenza. Del resto, citando il pensiero del poeta portoghese Fernando Pessoa (1888-1935) espresso in una sua poesia, forse Dio stesso ha scelto di rimanere inconoscibile per gli uomini, che lo possono percepire guardando il verde degli alberi e il miracolo della vita di tutte le creature. Dunque possiamo avere uno spiraglio per la sua conoscenza, e per poter credere in Lui: rispettare le sue creature, essere capaci di amarle, come Gesú ci ha insegnato.
Forse una possibile chiave di lettura delle Scritture potrebbe suggerire un’ipotesi alternativa, basata sulla definizione di se stesso data dal Creatore e riportata nella Bibbia con le parole «Io sono colui che sarò» (Esodo 3, 14). Se la traduzione è esatta – con tutte le difficoltà che sono notoriamente possibili – si potrebbe razionalmente prospettare una concezione evolutiva di Dio: una evoluzione globale che potrebbe cointeressare Creatore e creature, nel senso universale del termine.
Chissà, se cosí fosse, che tutti gli uomini e le donne del mondo – e le possibili altre esistenze in tutto l’Universo – non siano liberi di confluire in un flusso (che noi cristiani definiremmo di amore) consensuale a quello di Dio, aiutandolo cosí a compiere il suo eterno divenire?
Pura fantasia, si dirà, che può ricordare il titolo di un vecchio film: Dio ha bisogno degli uomini (Jean Delannoy, 1950), ma, se cosí fosse, soltanto allora, in un abbraccio fuori di ogni limite temporo-spaziale, potremmo forse conoscere la vera onnipotenza di Dio; e finalmente recitare, con la sua stessa voce: credo in Dio onnipotente; e unirci tutti in un coro universale: «Gloria, gloria, gloria in excelsis Deo».