5 – Per concludere

di Aldo Badini

Toccare, sia pure per rapidissimi cenni, il «mysterium iniquitatis », significa davvero, come ha ricordato Vito Capano nella sua introduzione sulla inequità politica, scendere alle radici di un dramma storico di fronte al quale, a imitazione di Leopardi, ci perdiamo nella impossibilità di conciliare l’insopprimibile tensione a un bene infinito con la frustrante consapevolezza del limite nostro e del mondo, di cui facciamo quotidiana esperienza. E se la tutela di un «bene comune universale» interpella le migliori energie del pensiero politico laico e religioso a ricercare uno sviluppo centrato sulla persona, la storia economica dal neolitico in poi ha seguito altre strade, privilegiando la proprietà privata e lo sfruttamento del lavoro, benché percorsi divergenti e modelli differenti, come esemplificato da Romano Bionda nel secondo intervento sulla inequità economica, siano stati indicati nel passato e suggeriti per il futuro.
Alternative e possibilità, dunque, non mancano, e sono tanto piú necessarie quanto è urgente il superamento anche di una terza inequità, quella ambientale, che chiama in causa la responsabilità individuale e il rapporto di interdipendenza con il quale ciascuno si relaziona con il mondo. Naturalmente è anche preziosa la testimonianza di un impegno pratico, poiché le idee da sole non bastano e, per dirla con l’arguto buon senso manzoniano, necessitano delle persone per poter camminare sulle loro gambe. Il guaio è che la sensibilità a queste tematiche, seppur crescente, è ancora minoritaria, con la conseguenza che collettività e individui pronti ad accantonare le politiche e i comportamenti di esasperato sfruttamento ambientale e a scendere in strada per far marciare davvero le idee sono ancora pochi, troppo pochi.
Quali soluzioni? Luigi Ghia, prendendo a prestito il linguaggio della medicina, ha osservato che per attivare gli anticorpi necessari per contrastare i mali che ci affliggono bisogna introdurre specifici antígeni alle tre inequità precedentemente delineate. Per combattere l’inequità politica è necessario il coraggio di un pensiero autonomo e libero dal pessimismo paralizzante, un pensiero capace di invogliare le élites a riassumere la loro originaria funzione di servizio. Al liberismo economico selvaggio è tempo di contrapporre una diversa organizzazione di vita, meno ossessionata dal PIL e piú propensa a regolare le nostre azioni sul principio lungimirante del bene collettivo. Va da sé che bisognerebbe allora attingere a quei modelli economici alternativi al capitalismo spinto, tuttora imperante, e impegnarsi anche a livello personale ad assumere i comportamenti virtuosi in grado di attenuare la grave e potenzialmente distruttiva inequità ambientale.
Certo, è faticoso andare controcorrente, ma questa è la posizione di chi accetta un Dio che si fa carne. Luisa Riva ha ricordato che sempre, fin dalle origini (lettera a Diogneto) all’attuale magistero di papa Francesco, i cristiani si sono misurati con i problemi del loro tempo e hanno trovato nelle Scritture le sollecitazioni a combattere le ingiustizie, pur con un grave rischio – è stato notato – rifiutato da altre religioni: la carne infatti si corrompe e per prevenirne la possibilità è necessario che la Parola stessa si rinnovi, evitando di imputridire in formule ripetute. La strada bimillenaria percorsa dall’Occidente preclude al fedele la completa sottomissione abbracciata dal mondo islamico e orienta invece alla responsabilità della scelta.
Esercizio difficile, anche quando i dati da considerare sembrano chiari (e spesso non lo sono), perché la prospettiva da cui li si esamina non è mai univoca. Pensiamo al termine stesso di inequità, che nel suo significato letterale rimanda al vocabolo latino aequus, cioè pianeggiante, livellato. Il senso comune sembra approvare senza difficoltà l’idea di eliminare tutto quanto non sia equo, tutto ciò che, appunto, viene percepito come iniquo. Infatti abbassare le cime e colmare le valli è certamente un bene per la regolarità del cammino; ma se la metafora viene trasferita dall’orografia alla sociologia, allora la valutazione muta, a seconda che si scelga il punto di vista di chi livella o di chi viene livellato. E non può che essere cosí, poiché l’operazione mette in gioco il delicatissimo rapporto tra i due valori fondativi della civiltà europea moderna e contemporanea, ovvero la libertà e l’uguaglianza, con tutto il corollario di riflessioni, di lacerazioni e di sangue che la coesistenza/concorrenza di questi principi ha generato negli ultimi due secoli e oltre della politica e della storia mondiali.
Le due grandi famiglie dei democratici e dei liberali che dalla rivoluzione francese alla fine del Novecento hanno governato l’Occidente, solo in modo parziale e per brevi periodi sono riuscite a risolvere la contraddizione, a garantire allo stesso tempo opportunità e condizioni di vita non troppo dissimili, senza ingabbiare le singole esistenze in percorsi prevedibili e omogenei. L’egualitarismo – non di rado ingenuo – è stato travolto dal fallimento dei movimenti e dei partiti che ne avevano tentato una qualche realizzazione politica, mentre il superstite liberalismo, apparentemente uscito vincitore dal lungo confronto con i suoi avversari (socialismo, comunismo, tradizionalismi), si è avvitato in un individualismo anarcoide che pare senza prospettive.
Il tempo presente sembra dunque segnato dal fallimento delle utopie, che pure, da Tommaso Moro in poi, avevano indicato la strada per il rinnovamento politico del nostro continente. Fallimento doloroso, perché concomitante all’eclissi della profezia, l’altra categoria fondamentale nello sviluppo della civiltà europea. Tale, almeno, è la tesi esposta in un recente saggio scritto a quattro mani da Paolo Prodi e Massimo Cacciari (Occidente senza utopie, il Mulino, 2016).
Lo storico emiliano da poco scomparso, in particolare, ha individuato nella crisi della profezia un ulteriore grave sintomo di quella malattia che sta segnando il declino dell’Occidente. La riduzione della profezia a innocuo gioco di previsione di eventi futuri (Fatima e Međugorje insegnano) ne ha infatti svilito il ruolo, oscurando la sua altissima, antica funzione di denuncia degli abusi e di salvaguardia degli spazi di libertà contro le oppressioni del potere, politico o religioso che sia. Non a caso fin dalle origini del pensiero giudaico cristiano la figura del profeta, ammirato e rispettato a posteriori, è stata sempre ostacolata e avversata in vita, a partire da quegli Eldad e Medad invisi a Giosuè (come si legge in un illuminante episodio di Numeri 11, 25-29 citato da Prodi e posto all’inizio della sua riflessione), continuando con Gesú e Gioacchino da Fiore, per finire ai tanti, vittime in ogni tempo di una repressione intollerante alle critiche.
Disperare, quindi? Non è detto. La possibilità di opporsi al «mysterium iniquitatis» non è prerogativa di manipoli di volonterosi che, come accennato in queste note, si interrogano sui modi per resistere alle tante inequità. E neppure i soli credenti sono chiamati a confidare nel potere salvifico della parola. La profezia, come ricorda lo stesso compianto professore, è anche parrhesía, cioè diritto/dovere di dire la verità, tanto nella polis greca, quanto nel popolo di Israele, come pure nella consapevolezza di coloro che riconoscono in questa funzione che parrebbe cosí lontana delle radici della democrazia, una delle garanzie di separazione tra potestas e auctoritas, tra il potere e un’autorità esterna che lo legittima e ne definisce i limiti.
E forse anche la Chiesa – lo scrive ancora Paolo Prodi in conclusione al suo contributo – sta recuperando un rinnovato rapporto tra profezia e istituzione, sta ripensando al proprio ruolo in un mondo cosí profondamente cambiato dal millennio trascorso. Ne sono segno le dimissioni di Benedetto XVI e il pontificato di Francesco: avvenimenti, entrambi, che hanno posto fine all’ultima monarchia assoluta dell’Occidente e hanno aperto un nuovo modo di essere della istituzione Chiesa, ancora non definito, ma pure percepibile in alcuni segnali.
La recente preghiera del Papa sulle tombe di don Primo Mazzolari e del priore di Barbiana (e nello stesso spirito nel 2018 si aggiungono quelle alle tombe di don Zeno Saltini e del vescovo Tonino Bello, ndr) offrono forse l’esempio piú esplicito. Inchinandosi alla memoria di due profeti emarginati in vita, la piú alta autorità ecclesiastica ne ha riconosciuto l’insegnamento e ricordato a tutti che lo Spirito soffia dove vuole, anche a Bozzolo e Barbiana: il che è motivo di consolazione per chi, soffrendo delle inequità e sperandone la guarigione, sa che il mondo è piú grande di Parigi, di New York o di Berlino e che le parole che contano non si dicono soltanto a Washington e a Bruxelles.