Sperare in un inizio, in quell’inizio

di Valentina Bonzi

È risaputo ormai quanto sia difficile in questi anni entrare in una delle facoltà piú ambite e richieste: medicina e chirurgia. Per l’ammissione è necessario il superamento di un test tentato da troppi studenti rispetto ai posti disponibili, una prova che richiede una conoscenza decisamente approfondita di biologia e chimica, un’ottima base di matematica e fisica e capacità di risoluzione di quesiti di ragionamento logico-verbale e matematico. Non bastano le nozioni acquisite al liceo: spesso i programmi svolti non sono sufficientemente approfonditi, senza dimenticare che una percentuale di studenti decisamente elevata proviene da licei a indirizzo umanistico, dove materie e argomenti come anatomia o chimica organica non vengono quasi accennati. Bisogna sacrificare parte dell’estate dopo la maturità, quell’estate che molti definiscono la piú bella della vita: senza compiti, un percorso durato cinque anni ormai lasciato alle spalle, la curiosità e la voglia di iniziare un nuovo capitolo determinante per il proprio futuro.
Il 4 settembre di questo anno ciascuna delle potenziali 59.687 matricole che ha tentato a Milano questa sorta di impresa aveva un solo obiettivo: riuscire a guadagnarsi quel posto, il primo successo dopo tanta fatica, nonché il primo passo di un impegnativo e ripido percorso di almeno dieci anni. Nessuno si aspettava che fosse semplice, eppure prove come questa appaiono sempre piú difficili rispetto a ciò che ci si potrebbe immaginare o, meglio, sperare. Posata la penna dopo quei 100 minuti che sembrano insufficienti per risolvere tutti i 60 quesiti, due pensieri attraversano la mente. Il primo è «ma chi me l’ha fatto fare?», che però viene presto sostituito da una sorta di senso di frustrazione mescolato a rabbia: «ho buttato via un’estate preparandomi a qualcosa di troppo grande, non certo alla mia portata».
In poco meno di due ore speranze, sogni, aspettative sembrano crollare. Scompaiono per un po’ quelle due o tre alternative che si devono per forza prevedere (i piani B, C, D e chi piú ne ha piú ne metta), se si vuole comunque studiare per un anno. È molto comune anche l’opzione di rimanere fuori dai giochi per dodici mesi, prendersi il cosiddetto anno sabbatico lavorando, andando all’estero alla pari o in servizio civile, e nel tempo libero studiare per ritentare l’anno successivo. Ma è davvero ciò che si vuole? Non si può negare che, spesso, può essere una scelta atta ad allontanarsi da una situazione di delusione. Può essere frustrante vedere i propri amici andare all’università, sentire le loro storie, la loro curiosità, o semplicemente la loro tranquillità nell’essere certi di poter iniziare, senza sbarramenti, il percorso che li porterà a svolgere la professione dei loro sogni. Ci si sente irrealizzati, o addirittura incapaci, nonostante si sia consapevoli della difficoltà di una prova di questo genere, e non basta sentirselo dire piú e piú volte.
Se «l’attesa del piacere è essa stessa piacere», ciò non vale per l’attesa del risultato di questo test: quasi un mese, infatti, separa lo svolgimento dalla pubblicazione della graduatoria nazionale. È facile dimenticarsene, dopo un’estate di ansia e studio, eppure permane quel senso di incertezza, quel non sapere dove si finirà da lí a qualche settimana, se quel percorso tanto difficile, lungo e sospirato potrà davvero diventare realtà; se l’impresa sarà stata compiuta con successo e dunque se si potrà davvero sperare in quell’inizio, anziché doversi accontentare di un piano B. Questo il tempo dell’attesa.