Solidarietà e sovranità

di Ugo Basso

Sono fra quelli che la notte del 26 gennaio – per settimane attesa e temuta, poi celebrata come una svolta positiva nella politica italiana – hanno dormito meglio. Mi sono congratulato con gli amici emiliani; compiaciuto che possano continuare ad avere un’amministrazione efficiente; rallegrato che sia ancora possibile nelle piazze e nelle urne una reazione al conformismo dominante che pareva dovesse travolgere tutti. É stata una nuvoletta di acqua in un deserto arido: una doccia piacevole, ma che non consente illusioni.
Non è mai bene abbandonarsi al pessimismo, come non è bene perdere di vista la qualità della nostra vita: forse giustamente è piú facile lamentarsi che apprezzare. Denunciare le gravi carenze della nostra scuola non può ignorare che disponiamo di un sistema scolastico in cui si può anche imparare; denunciare inammissibili ritardi nell’accesso agli esami clinici non può ignorare percorsi chirurgici eccellenti e tempestivi; denunciare l’inefficienza nei trasporti pubblici non può ignorare l’organizzazione e la sicurezza di molte reti urbane e interurbane. Non possiamo svegliarci al mattino pensando che vada tutto male e che tutti i politici – la casta – siano profittatori incompetenti perché, per fortuna, non è vero: riconoscere chi è competente e impegnato e apprezzare il positivo di cui possiamo godere assicura maggiore serenità e insieme maggiore equilibrio sia nella ricerca dell’estensione del positivo, sia nella denuncia di tutto quello che non va.
Nel presente politico restano preoccupazione e insicurezza perché l’interesse dei cittadini, il bene comune, non è mai al centro del dibattito: ne ha preso il posto quello che ogni forza politica considera nell’immediato il proprio vantaggio elettorale e dunque non servono neppure le conoscenze settoriali – siano sulla scuola o sull’edilizia pubblica o sull’amministrazione fiscale o sulla giustizia –, a loro volta sostituite dalle competenze comunicative.
Dalla crisi politica e ambientale che stiamo vivendo consapevoli dei rischi compresi quelli dell’estensione dei conflitti in atto, possiamo uscire con la fine della vita sul pianeta, con la creazione di una società rinnovata di cui non sappiamo immaginare le strutture o possiamo non uscire, mantenendoci in questa palude di insicurezza in cui ciascuno cerca scorciatoie per cavarsela. Dobbiamo discernere quello che costruisce da quello che distrugge, a partire dall’arroganza, dalla volgarità, dal respingimento che sono un’emergenza, perché dissolvono la solidarietà, posta dalla costituzione alla base della nostra società necessaria come terreno di cultura in cui mettere in primo piano le esigenze degli altri.
Le elezioni del 26 gennaio sono ormai lontane e la maggioranza del paese non pare cambiata, la confusione nei partiti resta grande e il governo fragilissimo, sostenuto, nonostante qualche figura significativa, piú che da un programma e da una visione del paese dal calcolo che i 5stelle e Italia viva hanno un numero di parlamentari superiore alla loro consistenza elettorale. Le sardine hanno dato voce a una speranza, ma con una ricaduta politica per ora locale. Importanti i due caratteri che li distinguono dai 5stelle: l’impegno a un linguaggio rispettoso e l’apprezzamento di politici competenti.
Resta, ma vale per tutti, che in una democrazia liberale, come vorremmo continuasse a essere la nostra, la cinghia di trasmissione tra il popolo e l’amministrazione sono i partiti dove si elabora pensiero, si registrano le esigenze, si propongono le soluzioni. I partiti, non i loro dirigenti: dai tempi di Berlusconi si contrappongono individui, si votano individui, il cui nome è registrato sulla scheda accanto o addirittura al posto del simbolo, perfino quando, come nelle elezioni europee o regionali, i leader non sono neppure candidati. E i partiti si pronunciano nei loro congressi da cui dovrebbero uscire, in pubblici appassionanti dibattiti, dirigenti e programmi.
Chiudo con un’amara considerazione riferita da Corrado Augias – la Repubblica, 20 gennaio 2020 –: a chiusura della sua breve esperienza come presidente del consiglio nei primi mesi dopo la Liberazione, nel dicembre 1945, Ferruccio Parri esprimeva la sua delusione verso il popolo italiano:

È la cosa che mi pesa di piú. Man mano che mi sono fatto una conoscenza piú profonda del popolo italiano, ho toccato i suoi aspetti di scarsa educazione civile e politica. Mi riferisco alla parte prevalente del Paese, non a tutto il Paese.