TPNW

di Ugo Basso

Un acronimo, naturalmente, probabilmente poco noto: Treaty on the Prohibition of Nuclear Weapons in italiano Trattato per la proibizione delle armi nucleari. Parliamo del trattato approvato in ambito ONU il 7 luglio 2017 e entrato in vigore il 22 gennaio scorso con la ratifica del cinquantesimo stato necessario appunto perché diventasse operativo. L’Italia non ha firmato e sul nostro territorio, secondo informazioni fornite da Greenpeace, è tuttora presente una quarantina di bombe atomiche. Anche al di là del chiederci da che parte stiamo, non è difficile immaginare i rischi di quella presenza e non solo in caso di eventi bellici: ma come bersaglio di terroristi o per qualsivoglia tipo di incidente. Non intendo tuttavia occuparmi ora di questioni drammatiche per tutto il mondo e per la stessa sopravvivenza dell’umanità, anche soltanto relativamente all’intelligenza artificiale applicata ai killer robot, armi nucleari autonome, in grado di decidere quando e come operare.
Considero invece due ordini di problemi posti delle informazioni appena considerate. Il primo riguarda la necessità di una autorità mondiale, il secondo la circolazione di notizie su questi argomenti. Mi rendo benissimo conto di quanto la sola ipotesi di una significativa autorità sovranazionale sia lontanissima da qualunque orizzonte, in tempi in cui sembrano allontanarsi, invece che avvicinarsi, anche le organizzazioni continentali esistenti, a partire da quelle europee.
Un’istituzione di questo genere è auspicata anche nel grande sogno di un’umanità in armonia illustrato da papa Francesco nell’ultima enciclica Fratelli tutti, senza escludere la preoccupazione che di questa autorità possa impadronirsi uno sciagurato tiranno. Negli orizzonti nostri possiamo sperare di evitare altri conflitti solo cercando di realizzare e mantenere difficili equilibri fra le potenze in campo, tutte ben fornite di arsenali nucleari: tuttavia la convinzione della direzione verso cui indirizzare l’umanità che sogniamo può aiutare a intravedere segnali da sostenere e sviluppare.
Ma perché non parlarne? Perché nell’informazione quotidiana e nell’immenso circolare di notizie sulle reti sociali non ci si confronta su queste decisioni e su queste spese? Quanto sono informati i cittadini italiani di queste scelte dispendiose e rischiose? Quanto è nota la presenza dell’Italia nel mercato mondiale delle armi e in operazioni militari lontane dal territorio nazionale?
Nessuno è problema semplice: certo sono necessarie alleanze, certo la riconversione dell’industria bellica non è fattibile in pochi giorni e i posti di lavoro perduti non si possono ignorare. Forse una popolazione che ragiona prevalentemente di pancia, come si dice oggi, prenderebbe decisioni ancora piú pericolose?
Per concludere, mi chiedo ancora perché non esiste un partito che invece di contendersi poltrone, di creare infinite discussioni su problemi del tutto estranei all’interesse e agli interessi di tutti non definisce alcuni problemi e su quelli fa un’informazione sistematica proponendo soluzioni? E in qualche modo chiamando gli altri a discuterne? Forse il progetto politico di Enrico Letta si muove in questa direzione? Occorrono volontà, competenze, studio, dibattito, rispetto, anche dei carcerati, come ricordava recentemente Marta Cartabia, ministro guardasigilli, ricordando l’attenzione ai carcerati del cardinale Martini.
Interrogarsi e pensare non risolve i problemi, però costruisce una coscienza: facciamo almeno quello.