Forse é un errore

di Ugo Basso

Solo tre noticine: sono reticente a scrivere sulla guerra in Ucraina vuoi perché mi auguro che quando questo testo sarà sotto gli occhi del lettore sia un discorso da storici; vuoi perché davvero chiunque cerchi informazioni, di parte o neutrali, competenti o presuntuose, rigorose o emozionali può attingere a infinite fonti. Data l’importanza dell’argomento non vogliamo comunque rinunciare a qualche nostra considerazione.
Diffido dalle semplificazioni nelle questioni internazionali, mai riducibili a contrapposizioni tra buoni e cattivi: ma questo non può significare pretesto per perdere di vista la realtà. Nel caso: non ho mai santificato gli ucraini; non ho mai pensato che non abbiano commesso errori; non amo l’Alleanza atlantica, anche se sono convinto che nei decenni passati ci abbia preservato dal diventare satelliti dell’URSS, che comunque è altro rispetto all’Unione europea; non mi sono schierato con gli Stati Uniti: ma che oggi la Russia sia aggressore e l’Ucraina aggredita non può essere messo in dubbio. Domani, se ci sarà, ragioneremo sui torti e le ragioni e si cercherà, spero, di governare la pace nel modo piú equilibrato, ma oggi i bombardamenti trovano motivazione, ma non giustificazione nell’espansionismo, nell’imperialismo, anche se forse non solo personali, ma innati nello spirito russo.
Secondo: è certamente verissimo, e da pensare, a quante guerre si sono combattute, magari con le nostre armi, con violenze bestiali anche operate da stati amici nella nostra indifferenza sia nell’informazione, in quasi totale assenza di copertura mediatica, sia nelle prese di posizione, nelle manifestazioni, nelle espressioni di solidarietà. Siccome questa guerra non sarà l’ultima – spero nel futuro e non oso pensarlo senza guerre –, ci sia di monito a comportamenti diversi: ci insegni a vigilare nella diffusione delle armi, a non assolvere comunque i «nostri», a studiare premesse e sviluppi politici e militari, ad accogliere profughi. Ma errori recenti e storici non possono sostenere esitazioni sull’urgenza di far cessare questa aggressione.
Infine, abbiamo sempre scritto, e pensato, che se i danari spesi per le armi fossero indirizzati altrove (sanità, istruzione, ambiente, funzionamento della giustizia…) il mondo sarebbe migliore; che l’abbandono delle armi nucleari è un dovere e abbiamo sempre preso atto con molto disagio che il nostro paese continua a incrementare gli investimenti per la difesa (forse addirittura anticostituzionali) ancora i giorni scorsi con un voto quasi unanime del parlamento, ed è fra i primi esportatori di armi al mondo, con i nostri governanti commessi viaggiatori con cataloghi di armi da vendere anche a paesi poverissimi.
Tuttavia oggi non riesco a condividere il rifiuto, che riconosco profetico, degli amici pacifisti, ai quali continuo a sentirmi vicinissimo, al sostegno dell’Ucraina anche con le armi. Questo non significa rinuncia all’incessante e fiduciosa ricerca di altre vie: vorrei ascoltare proposte praticabili, vorrei che la fantasia del mondo sapesse inventare soluzioni non adombrate neppure nelle appassionate e autorevoli parole di Francesco, ma la richiesta di armi di resistenza, in quantità e modalità concordate soprattutto circa la distribuzione e senza ignorare i rischi, non mi pare possa essere rifiutata. Fornire armi significa per certo continuare la guerra e aumentare i morti e il dovere primo sarebbe invece risparmiare tanti morti innocenti: a qualunque condizione? Forse anche a Hitler si sarebbe potuto resistere con i metodi del pacifismo attivo. Forse.
Come scrive il sempre convincente Carlo Rovelli (Corriere della sera, 15 marzo),

il clima di belligeranza in cui vedere sofferenze ci spinge a fomentare la guerra, chiamiamo “pace” l’inviare armi, mi preoccupa, mi fa pensare che forse stiamo commettendo un errore.

Può essere un errore e non chiamo “pace” l’inviare armi: ma posso chiamare “pace” la resa all’aggressore? Vorrei sperare che la resistenza duri fino alle trattative di intesa, e siano in tempi brevissimi.
Atteggiamento disarmato è comunque non presumere che il proprio pensiero sia la verità.