La parola nell’anno – maggio giugno

Pentecoste B
LA VERITÀ TUTTA INTERA È L’AMORE (Atti 2, 1-11; Giovanni 15, 26-27; 16, 12-15)
di Roberto Magnelli

«Quando verrà lo Spirito, vi guiderà a tutta la verità». Manca forse un pezzo di verità a Gesú, se dobbiamo attendere lo Spirito per conoscerla? E quali sarebbero le cose future che ci annuncerà? Qui si dice che lo Spirito non va oltre quello che Gesú ha detto o fatto nei Vangeli: «non parlerà da sé stesso, ma prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà ». Se poi la verità riguarda Dio, ancora una volta non c’è nient’altro da sapere di Lui, se non Gesú, e Gesú solo: «Tutto quello che il Padre possiede è mio!». Poiché Dio non ha, ma è («Io sono colui che è» Es 3, 14), ed è Amore (1Gv 4, 8), quello che Gesú a sua volta possiede, è solo l’Amore! Questa – e nessun’altra – è «la verità tutta intera» a cui lo Spirito deve condurci, questo il suo compito: farci conoscere Gesú perché, conoscendo Lui, scopriremo che Dio è innanzitutto Padre e, come tale, è tutto Amore, e solo Amore! Cinquanta giorni dopo la Pasqua gli Ebrei ricordano la Legge, incisa nella pietra da Mosè, sul Monte Sinai; noi cristiani, ricordiamo la Legge dell’Amore, incisa da Gesú nel legno della croce, sul Monte Golgota, capace di cambiare la nostra esistenza: «Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra».
Come Chiesa, abbiamo un po’ depotenziato questa capacità dello Spirito, relegandolo al ruolo di assistente del magistero, a custode del deposito della fede, un addetto alla conservazione della tradizione. E noi preti abbiamo finito con essere dei funzionari di Dio incapaci a cogliere le novità che lo Spirito è capace di suscitare, o addirittura diffidenti rispetto a esse.
Le letture della Solennità di Pentecoste ci suggeriscono la capacità dello Spirito di generare rinnovamento, con immagini assolutamente vitali: nella messa vespertina che precede questa domenica c’è l’acqua, fonte della vita: dove manca, solo aridità e deserto! Oggi il fuoco e il vento: una parola, quest’ultima, che ci riporta alla metafora delle origini: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo, soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente» (Gn 2, 7). Un soffio che, nel panorama dell’intera creazione, rende la vita dell’uomo speciale e unica, e ci fa partecipi della vita stessa di Dio: suoi figli! Il fuoco poi: «Sono venuto ad accendere un fuoco sulla terra…» (Lc 12, 49) diceva Gesú ai suoi. Il fuoco è luce che illumina il cammino della vita, calore che permette di alimentarla e la protegge dai rigori del gelo, dall’inverno della morte!
Negli Atti è il vento dello Spirito a provocare il cambiamento dei discepoli: li scuote dalla paura, li fa uscire dal Cenacolo in cui erano rinchiusi, gli insegna a comunicare in un linguaggio comprensibile a tutti: il linguaggio dell’Amore, che non ha bisogno di parole, ma è fatto della concretezza dei gesti di servizio, di vicinanza, di confidenza, di tenerezza… Sarebbe bello se riuscissimo a comunicare Dio come Colui che è capace di farci uscire dalle insicurezze, dalle paure, di abbattere i muri delle nostre durezze, dei nostri egoismi, delle nostre lontananze e diffidenze! Se riuscissimo a «far ardere il cuore nel petto», agli uomini del nostro tempo, comunicando Dio come Colui che suscita la vita dove c’è il deserto, capace di consolarci, di sostenerci e difenderci di fronte ai mali che abitano la nostra esistenza, offrendo futuro e speranza là dove rischiamo di vedere solo fatica e oscurità: uno in grado di farci riscoprire la nostra «verità tutta intera», cioè di restituirci la coscienza di noi stessi, la consapevolezza che solo quello che sentiamo giusto, buono e vero, è capace di farci essere persone autentiche: figli e fratelli!
Davvero, Signore, hai «ancora molte cose da dirci… ma per il momento non [siamo] capaci di portarne il peso!» Quello Spirito che ci hai donato dall’alto della croce, e abbiamo ricevuto nel nostro battesimo e confermato nella cresima, dobbiamo ancora imparare ad accoglierlo e a viverlo.

 

X domenica del tempo ordinario B
IL GRANDE E IL RARO HA NOME DI FOLLIA (Genesi 3, 9-15; Marco 3, 20-35)
di Aldo Badini

Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto».
C’è una guerra – ricorda la prima lettura – antichissima e sempre attuale, che espone nudi al male e non consente nascondigli protetti. Ma se è fin troppo facile rivederci nelle debolezze dei progenitori, Gesú propone il modello opposto, di chi non fugge la responsabilità della chiamata, ne accetta il peso e ne paga il prezzo: un prezzo – narra l’evangelista Marco – che include l’incomprensione e il rifiuto dei familiari e delle autorità religiose, che diffidano di lui.
Disceso dalla montagna dove ha appena istituito il gruppo degli apostoli (Mc 3, 13-19), il Maestro entra in una casa. Questo luogo interno ove la folla seduta in cerchio ascolta le sue parole si contrappone al fuori, a chi giunge dall’esterno con animo impaurito e intenzioni ostili: i suoi parenti in primo luogo e i dottori della legge in seconda battuta.
Il divario non potrebbe essere piú netto: a due soli versetti di distanza dalla presentazione dei dodici, nominati uno per uno, che costituiscono la nuova famiglia spirituale, si fanno avanti i componenti di quella biologica, che vorrebbero portare via il loro consanguineo, mossi dal clamore che suscitano le sue guarigioni e gli esorcismi.
«Il grande e il raro ha nome di follia», scriveva Leopardi, e tale è l’accusa dei parenti, spaventati dalle conseguenze dei gesti e della predicazione del loro congiunto. Di costoro, a differenza degli apostoli, non conosciamo il nome proprio, perché il narratore li qualifica genericamente come madre, fratelli e sorelle. Gli altri oppositori, gli scribi, sono giunti da Gerusalemme in veste di custodi della Legge. La loro indagine sfocia in una sentenza inappellabile: il nazareno non è semplicemente fuori di senno, è fuori dall’ortodossia; pertanto i suoi atti di potenza non possono che derivare da Satana, dal quale è posseduto; e dunque, essendo autore di stregonerie, è un pericolo per il suo stesso popolo.
Al di là del paradosso, per cui chi libera dai demoni è giudicato indemoniato, e dall’ironia che allontana dagli intimi di Gesú proprio coloro che pretendono di essergli vicini e sono invece distanti fisicamente e spiritualmente, il testo di Marco non intercetta facilmente la sensibilità e la capacità di comprensione del lettore moderno. Tutta la controversia sulle possessioni diaboliche e sulla autorità celeste o infera dell’esorcista e taumaturgo appartiene a un orizzonte culturale e temporale il cui linguaggio è per noi indecifrabile.
Tuttavia l’evangelista dice almeno due cose altrettanto chiare oggi come duemila anni fa, e le dice con insolita durezza. Denigrare il bene e infamare chi lo compie con ragionamenti capziosi è una colpa imperdonabile: bestemmia contro lo Spirito santo – accusa Gesú – perversione della verità, potremmo tradurre noi con parole d’oggi.
Il secondo ammonimento pertiene ai vincoli di appartenenza familiare e sociale, che non possono e non devono distogliere dai valori piú alti; anzi, se pretendono la preminenza in nome della rispettabilità e della adesione al sentire collettivo, vanno retrocessi senza timore, anche se chi intende conformare le proprie scelte di vita a principi nobili e solidali rischia di passare per matto. E tuttavia è proprio attraverso l’apparente follia del continuo rinnovamento dell’uomo interiore, per dirla con le parole di Paolo, che il credente accede alle forme piú alte di fraternità.