sinodo: Non lasciarsi paralizzare dal realismo
di Ugo Basso
Da ottobre, e per qualche aspetto anche da prima, seguo le proposte, i documenti e le attività connesse con i due sinodi della chiesa cattolica (nazionale e mondiale), in parte sovrapposti nei tempi e negli ambiziosi progetti. Ho cercato di seguire personalmente e sulla rivista, grazie soprattutto alla ricerca di Cesare Sottocorno e alle informazioni che circolano nella rete dei Viandanti, insieme ai nostri incontri dedicati, essenzialmente per due ragioni: la prima è un ripensamento globale delle posizioni ecclesiali, di tante parole e concetti dati per scontati, ma di fatto logorati o addirittura svuotati; la seconda la speranza che la chiesa riesca a trovare un linguaggio e una presenza nella società occidentale ormai definita postcristiana.
La prima ragione ha convocato diversi incontri che hanno raccolto riflessioni personali, posto domande, rielaborato convinzioni nel contesto attuale, pur nella chiara convinzione di un cammino senza risposte definitive fin che la vita esiste e la creazione si evolve. A partire da me, come abbiamo anche cercato di scrivere, ci siamo interrogati sul senso del credere, su chi è per noi e che cosa rappresenta Gesú Cristo, che cosa intendiamo per rivelazione, presenza, resurrezione, liturgia, comunità e credo abbiamo fatto qualche progresso nella maturazione personale e nella riscoperta del valore del credere.
Ci siamo posti anche molte domande su come debba esprimersi la testimonianza sociale, come si debba intendere l’evangelico «tra voi non sia cosí»: vale a dire come assumere comportamenti coerenti e pubblici, come si possa pensare al samaritano nel concreto sociale di oggi, come suggerisce Francesco nell’enciclica Fratelli tutti. Ma anche le grandi scelte, fatte o subite, come il neocapitalismo, il porsi nella rete informatica, le condotte sanitarie, il fine vita, per fare qualche esempio: ragionando e studiando magari cresce la consapevolezza, ma anche a livello del pensato risulta difficile approdare a linee guida comuni. Accettare che su quasi tutto ciascuno pensi come crede è rispetto della coscienza, o incapacità di trovare risposte evangelicamente condivisibili?
Come realizzare quella che Enzo Bianchi chiama «la differenza cristiana»?
Su questi problemi comunque sono state realizzate ricerche, riunioni, analisi: ma sempre in ambiti limitati e, soprattutto, senza nessuna possibilità di approdi decisionali. Naturalmente pensare e studiare va benissimo: accresce responsabilità, pone interrogativi e dubbi, aiuta a sapere di che cosa si parla, guardare piú criticamente, a aprire nuove ricerche, a creare consapevolezza che non si può essere cristiani nell’inerzia.
Tanti studi condotti da personaggi con raffinata cultura, grande spiritualità, autorevolezza esegetica e teologica sono comunque da salutare con attenzione ma restano in ambiti di nicchia, come si dice e quando qualche proposta impatta con l’istituzione difficilmente si va oltre genericità, rinvii, richiami alla tradizione, difficoltà operative. Il cammino ha superato gli inizi, ma è raro vedere segni significativi. Nelle parole di Francesco, che ha voluto questi sinodi quasi da solo, mi pareva di cogliere la possibilità non solo di qualche riforma formale, sulle quali comunque avanzo dubbi, ma di un’istituzione rinnovata in direzione evangelica. Immobilismo secolare, timori anche comprensibili, poca fiducia nello Spirito, ma soprattutto il diabolico connubio dell’arroganza clericale con l’ignoranza laicale.
Non possiamo nasconderci nel popolo di Dio le paralizzanti paure per un verso che «ci cambino la religione» dei riti e dei santuari; per un altro che vengano chieste nuove assunzioni di responsabilità recriminate sia da chi ne sarebbe privato sia da chi dovrebbe farsene carico. Ed ecco la sinodalità, stile necessario a tutta l’attività della chiesa, immaginata già alla conclusione del concilio Vaticano secondo, ma del tutto abbandonata nei decenni successivi, tanto da richiedere oggi un sinodo. Ma, come sostiene non da solo l’amico p Alberto Simoni, la sinodalità dovrebbe essere il metodo di lavoro, non l’obiettivo dei sinodi verso cui ci stiamo avviando. Forse si dimentica che sinodalità significa porsi i problemi, studiarli insieme e realizzare le decisioni prese insieme: una ragione dell’allontanamento di tanti dalle chiese credo stia proprio nel sentirsi esclusi dalle decisioni.
Proveremo ancora a studiare e esprimerci su qualche singola questione, ma resta tutto esercizio accademico, interessante e magari appagante, fino a quando non coglieremo la volontà partecipativa della gerarchia, che appare incapace di cambiare, nemmeno per abolire i titoli d’onore, di darsi nuove istituzioni, nuove liturgie, costruire nuovi rapporti intraecclesiali. Certo ogni battezzato, ogni gruppo può convertirsi in senso evangelico, ma l’obiettivo dovrebbe essere la trasformazione dell’intera comunità. Mi auguro che il realismo non disincentivi a fare anche solo qualche piccolo passo nelle varie direzioni, cominciando a sostenere, a incoraggiare, a collaborare con le esperienze di rinnovamento comunque messe in atto da qualcuno.
In uno spazio ecclesiale ampio e con una ricerca organica partecipata mi pare ci abbia provato soltanto il sinodo della chiesa tedesca, con un lavoro di vasto respiro, coraggioso e coinvolgente: ma da Roma non è stato recepito sostanzialmente niente. Pertanto, per continuare l’impegno di chi ce lo sta mettendo e chiederne ad altri, prima dei questionari, delle modalità di conduzione dei rilevamenti, occorre sapere che cosa l’istituzione nel suo complesso e nei suoi singoli rappresentanti – sí dico anche i singoli parroci – sono disposti ad accogliere. Insistendo, con determinazione paolina, a tempo e fuor di tempo.