Un turismo che si interroga

di Maria Grazia Marinari

Reduce da uno splendido viaggio in Grecia, in cui tra l’altro ho visitato Meteora – scontrandomi dolorosamente con «la vera ortodossia cristiana» –, ho assistito, la domenica successiva, alla proclamazione di dieci nuovi santi della chiesa cattolica. Sconsolatamente ho dovuto, di nuovo, constatare come le incrostazioni culturali delle religioni si sovrappongano e offuschino la Buona Notizia che pretendono di diffondere.
I monasteri di Meteora, costruiti sulle impervie rocce della Tessaglia nord-occidentale a partire dal X secolo per vivere la fede isolati dalla mondanità, raggiunsero l’apice nel XVI secolo e mantennero il loro isolamento fino al XX. Negli anni ’20 si costruirono strade di accesso, furono poi sia depredati dalle truppe italo-tedesche durante la seconda guerra mondiale, sia danneggiati durante la guerra civile dal ’43 al ’49 e, a partire dagli anni cinquanta, sono diventati meta turistica. Oggi almeno tre sono vistabili e, come molti santuari, sono diventati una sorta di incrocio tra luogo ieratico e bazar.
Uno degli aspetti ieratici piú irritanti per una donna che spera di credere nel Vangelo consiste nell’obbligo di indossare una sottana: altrimenti bisogna coprire i pantaloni con uno straccio usato, da raccogliere gratuitamente da un cesto all’ingresso, oppure comprarne uno pulito alla biglietteria.
Espletato questo fastidioso e incongruo obbligo, si può entrare nella chiesa del monastero, come tutte le altre costruita secondo uno schema rigidamente rigoroso: nartece (per i catecumeni e i penitenti), naos (per i fedeli, gli uomini separati dalle donne) e presbiterion (per il clero isolato mediante la iconostasi con al centro, chiusa durante la consacrazione, la porta santa). Le pareti del nartece e del naos sono ricoperte da pitture raffiguranti il ciclo storico, dogmatico e liturgico della chiesa ortodossa: particolare rilevanza è data alle atroci forme di martirio inflitte.
L’insistenza sulla sofferenza connessa alla autentica ed eroica testimonianza di fede e la sacralità della liturgia esistono anche nella tradizione cattolica e risultano in contrasto con l’annuncio evangelico, forse ancor di piú quando viste con l’occhio distaccato del turista e non del fedele praticante ad accogliere la tradizione iconografica e cultuale. Gesú non esalta mai la sofferenza e la mortificazione, critica la vacuità di riti e tradizioni umane che sono sovrapposte al dettato del Padre fino a soffocarlo, ma le chiese, dal Cristo chiamate alla santità, sono spesso molto piú inclini alla sacralità e al potere a essa collegato.
Con la sacralità, decisamente aliena dalla figura di Gesú e dal suo insegnamento, è anche strettamente legata la prassi ufficiale della santificazione: i commentatori televisivi della funzione svoltasi in piazza san Pietro il 15 maggio scorso, a proposito della luminosa figura di Charles de Foucauld, esempio originale e radicale di santità evangelica, sottolineavano la certificazione di miracoli a lui attribuiti. La chiesa cattolica, lo sappiamo bene, per concedere la gloria degli altari richiede il riconoscimento di miracoli: quanto sia possibile stabilire in modo inconfutabile che cosa sia un miracolo resta forse da verificare (come?), ma sicuramente rientra in una mentalità giuridica molto piú mondana che spirituale, lontana dal mistero annunciato e celebrato.
Estranea, se non addirittura contraria al Vangelo, è la differenza nel riconoscimento della santità, a cui tutti gli aspiranti cristiani siamo chiamati a tendere, da parte delle diverse chiese cristiane: i protestanti ne rifiutano il culto, i cattolici e gli ortodossi, accanto ai santi condivisi, ne venerano anche alcuni non reciprocamente riconosciuti. Uno dei tanti problemi dell’ecumenismo teologico.
Ogni anno, soprattutto in occasione della Pasqua, dobbiamo poi rivedere a Gerusalemme e nel mondo le diverse chiese cristiane celebrare, separatamente e in date diverse, la Risurrezione di Cristo: questo annuncio dirompente di libertà, speranza e gioia è imbrigliato e mortificato da riti, regole e, fondamentalmente, questioni di potere, con tensioni talvolta anche violente.
Torna cosí alla memoria l’ironico e provocatorio quesito, posto in una serata al Gallo da Jean Pierre Jossua, se le chiese fossero nate per diffondere il Vangelo o per smorzarne la portata eversiva…
E tornano alla memoria gli appassionati interrogativi di David Maria Turoldo sulla sua chiesa amata e infedele:

Perché allora è una potenza,
schiava come ogni potenza?
Perché non battere le strade
come una follia di sole,
a dire: Cristo è risorto, è risorto?
Perché non si libera dalla ragione
e non rinuncia alle ricchezze
per questa sola ricchezza di gioia?
Perché non dà fuoco alle cattedrali,
non abbraccia ogni uomo sulla strada,
chiunque egli sia,
per dirgli solo: è risorto!
E piangere insieme,
piangere di gioia?
Perché non fa solo questo
e dire che tutto il resto è vano?
Ma dirlo con la vita,
con mani candide

e occhi di fanciulli1.

Parole che dovrebbero risuonare alto e in continuo ovunque ci sia qualcuno che provi a dirsi cristiano, contribuendo cosí, dal basso, a liberare le chiese da quelle incrostazioni pagane con cui i secoli le hanno appesantite, opacizzate e rese praticamente incapaci di trasmettere l’annuncio affidato loro.
—————————-
1David M. Turoldo, Mio prefazio a Pasqua, in «O sensi miei… Poesie 1948-1988»1990, pp 387-88.