Risparmiare a danno di chi?

di Manuela Poggiato

È il dicembre del 1989 e a New York viene inaugurato il primo negozio della catena di abbigliamento spagnola Zara. Il suo fondatore, Amancio Ortega, afferma di impiegare solo quindici giorni dal momento in cui un capo viene disegnato a quando lo stesso è esposto sugli scaffali dei negozi. La rapidità è il suo principio fondante e il New York Times coglie in pieno il concetto coniando il termine fast fashion – moda veloce diventato famoso nel mondo. Il successo, basato su velocità e bassi costi, è travolgente tanto che il suo ideatore è uno degli uomini piú ricchi del pianeta e molti altri analoghi marchi si sono affacciati alla ribalta. Rapidità, ampia scelta, variabilità dei capi sempre al passo con i tempi e a basso costo: un approccio orientato al cliente. Tutto bene quindi. Vendere a costi tanto bassi ottenendo comunque un profitto si può, ma bisogna ottimizzare ogni passaggio del percorso produttivo: dalle materie prime, al design, alla lavorazione, al confezionamento. Tutto deve essere ottenuto al minor costo possibile, compreso il lavoro umano.
E qui cominciano i problemi e le critiche di quanti considerano la fast fashion una della attività meno sostenibili dell’economia globale per il suo impatto ambientale, umano e sociale poiché questa opera in maniera del tutto antitetica rispetto agli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile creata dall’ONU nel 2015. Tutti i 193 Paesi che ne fanno parte hanno approvato l’Agenda e si sono impegnati a raggiungere entro il 2030 i 17 obiettivi in cui è articolata. Si tratta di azioni estremamente importanti che vanno dal contrasto alla povertà e alla fame nel mondo, alla riduzione delle disuguaglianze e delle disparità di genere, alla creazione di energia pulita, al diritto a una vita sana.
I goal dell’Agenda 2030 che piú vengono ritenuti lontani dal mondo della fast fashion riguardano il consumo e la produzione responsabili, la tutela degli ecosistemi acquatici, il lavoro dignitoso. Secondo l’Agenda un’economia sostenibile si basa sulla regola delle tre R: Ridurre i consumi, Riutilizzare i materiali allungandone la durata di vita, Riciclare rifiuti producendo nuovi beni. La elevata velocità di produzione con la continua immissione in commercio di nuovo materiale e i bassi costi della fast fashion si muovono invece in tutt’altra direzione, creando una costante sovra produzione e una continua tendenza all’incremento del consumo.
È stato calcolato che attualmente negli USA si acquistano cinque volte piú capi di abbigliamento rispetto al 1980, il numero di volte in cui un capo viene indossato si è ridotto del 36% arrivando a un numero di indossi di sole 7-8 volte per capo. Una moda usa e getta, quindi, ben lontana dalla regola delle 3 R, che ha comportato un aumento del volume dei rifiuti tessili del 40% che rappresentano cosí l’85% della massa di rifiuti che si trova nelle discariche o che viene bruciata, con evidenti conseguenze sull’ambiente. Per ridurre drasticamente i costi, inoltre, i marchi fast fashion trasferiscono la produzione in paesi in via di sviluppo dove i sistemi di controllo ambientale sono assenti o facilmente superabili, la fonte principale di energia è il carbone, estremamente inquinante, scarseggiano i sistemi di depurazione e i materiali residui vengono scaricati direttamente nelle acque utilizzate per bere, cucinare, irrigare i campi.
Secondo la Banca Mondiale, il 20% dell’inquinamento idrico attuale deriva da tinture e trattamenti dei tessili. Inoltre i tessuti sintetici e i materiali plastici di cui sono fatti molti capi fast fashion quando vengono lavati in lavatrice rilasciano una massa enorme di microplastiche: è stato calcolato che l’industria della moda sia responsabile del 35% di tutte le microplastiche trovate in mari e oceani, persino nel mar Glaciale Artico. Ma l’obiettivo piú importante dell’Agenda 2030, ritenuto disatteso dalla fast fashion, riguarda il lavoro dignitoso, un diritto riconosciuto dalla Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948.
L’ottimizzazione di ogni aspetto produttivo compreso quello umano comporta paghe irrisorie – il record spetta ai lavoratori del Bangladesh con 50 euro al mese – nessuna tutela sindacale, assenza di contratti, lavoro minorile, sfruttamento di quello femminile in luoghi di lavoro spesso malsani e non sicuri. A questo proposito si cita quello che è considerato il piú grave incidente sul lavoro della storia: il crollo del Rana Plaza avvenuto il 24 aprile 2013 a sud di Dacca, capitale del Bangladesh. Si trattava di una struttura di otto piani adibita a industria tessile per molti brand occidentali, oltre che a banche, negozi, appartamenti. Il crollo era stato annunciato nei giorni precedenti dalla comparsa di crepe che avevano portato alla chiusura di tutte le attività ma non di quelle tessili. Morirono 1134 persone, altre 2515 furono estratte ferite dalle macerie. Da allora ogni 24 aprile si celebra il Fashion Revolution Day, una giornata di sensibilizzazione su come vengono prodotti i vestiti che molti di noi, me compresa, acquistiamo e indossiamo pensando solo al nostro piccolo tornaconto economico.