La parola nell’anno – aprile

domenica delle Palme A
IL GIUSTO FEDELE SI PRENDE CURA (Isaia 50, 4-7, Salmo 21, Filippesi 2, 6-11, Matteo 26, 14-27,66)
di Chiara M. Vaggi

Il vangelo di questa domenica, il racconto della Passione, è immerso nel mistero dell’Incarnazione e della Resurrezione. Come laica, posso solo cogliere degli elementi periferici che lambiscono appena la profondità degli eventi narrati. La prima suggestione riguarda la crocefissione e l’immagine che ne possiamo dare. All’interno della mia chiesa parrocchiale, a Milano, davanti alla pala d’altare c’è un grande crocifisso ligneo moderno: un crocifisso che non esprime la tragicità della sofferenza – «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato » del salmo 21 –, ma il trascendimento del dolore nella volontà di Dio che si trasforma nell’abbraccio al mondo del risorto. È un crocefisso che richiama le splendide crocefissioni di Chagall, citiamo almeno Exodus e Crocefissione bianca, in cui le braccia spalancate accolgono tutta la sofferenza della popolazione ebraica e, per estensione, tutto il dolore dell’umanità di ogni tempo, a conferma del fatto che forse sia proprio l’arte a poter accompagnare e sostenere la meditazione in profondità come accade con la Passione secondo Matteo di Bach.
La seconda suggestione riguarda l’interpretazione della crocefissione. Paolo riprende implicitamente il paragone tra Gesú e Adamo. Adamo creato a immagine di Dio non gli obbedí; Gesú che era a immagine e somiglianza di Dio, al contrario di Adamo, come servo visse uomo tra gli uomini e fu obbediente fino alla morte di croce. Da Dio fu quindi innalzato come Messia e Signore sopra tutte le cose. La teologia successiva ha dato della crocefissione tante interpretazioni soprattutto di tipo sacrificale. Mi sembra di poter aggiungere, con padre Alessandro Sacchi, che le spiegazioni piú comprensibili per la nostra mentalità attuale sono piuttosto altre, quelle che fanno riferimento all’essere il Cristo il profeta perseguitato, il giusto fedele fino al martirio e il maestro.
Il profeta si inserisce nella storia di quanti sono vessati perché, consapevolmente o meno, trasmettono agli uomini la parola di Dio. Cosí nel brano di Isaia appare la figura del Servo del Signore che annunzia ai giudei la fine dell’esilio e il ritorno nella terra dei padri. Egli ricorda la sua chiamata, descrive le sofferenze che gli sono inflitte perché non viene creduto e termina con una dichiarazione di fiducia in Dio. Sia il giusto perseguitato per la sua fede, e quindi per la coerenza con i suoi valori, sia il profeta deriso sono modelli attuali apprezzati ai nostri giorni in un contesto di paura, di confusione, di liquidità morale, anche se in modo piuttosto contraddittorio perché spesso vogliamo soprattutto essere lasciati in pace. Nel nostro mondo, comunque, i martiri continuano la loro testimonianza e in tanti contesti diversi. Quanto alla figura del rabbi che annunzia il regno di Dio, che è pastore delle sue pecore al punto di dare la vita per loro con una fedeltà portata fino all’estremo, che testimonia una vita in continua relazione con il Padre e volta al servizio del suo popolo e di tutta l’umanità, credo sia esempio e strada per tutti quelli, cristiani e non, che si impegnano a fondo per il bene comune.
Infine, Matteo non interpreta, ma narra, mette in scena la passione di Gesú, almeno per quello che è possibile narrare senza interpretare. Degli effetti finali, anche simbolici, che accompagnano la sua morte ricordiamo quello piú specificamente religioso: il velo del tempio che si strappa, a dire la fine dell’esclusivismo di Israele e l’apertura a tutti della comunione con Dio, quello cosmico che riguarda la fenditura delle rocce, il terremoto, l’uscita dei giusti dalle tombe che si incardina in tanti brani profetici e non del primo testamento, quello umano della fedeltà ininterrotta del piccolo gruppo di donne che dalla Galilea hanno seguito il Cristo e si sono prese cura di lui fino alla fine. E il Vangelo di Matteo usa, a proposito di queste donne, lo stesso verbo (diakonein) adoperato per descrivere la missione di servizio di Gesú («il Figlio dell’Uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire», Matteo 20, 28) e quella degli angeli dopo le tentazioni nel deserto («ed ecco gli angeli si accostano e prestano servizio a lui», Matteo 4, 11b).

 

 

domenica di Pasqua
IL CROCIFISSO EPIFANIA DI DIO (Giovanni 20, 1-9)
di Massimo Casaro

Nella Scrittura, non tutte le parole sono uguali. Ciascuna ha un suo peso; un peso diverso. E allora bisogna pesarle. L’interpretazione della Scrittura, in fondo, non è altro che un continuo lavoro di ponderazione, per lasciare che le parole, ciascuna parola vada a collocarsi alla giusta profondità. Alcune rimangono appena sotto la superficie, altre scendono sempre piú fino a raggiungere, come direbbe Bernanos, l’estrema punta dell’anima. Quando ero in Brasile, e tentavo di avviare un progetto educativo che avesse il suo centro ispiratore nel ser e transcender, nell’essere e trascendere, mi sono permesso di distinguere ragione da pensiero, affermando che, mentre la prima risolve problemi, il secondo dischiude relazioni. In effetti, quando si è provato l’amore, si sono conosciuti quegli istanti magici in cui si è rimasti a lungo, il piú a lungo possibile, per tutta l’eternità al cospetto dell’altro, con la mente attraversata non da ragionamenti, ma dalla corrente vitale che genera il rapporto. Vuoti, ma vigili, partecipi, recettivi. Innamorati. Ebbene, qualcosa di simile avviene, deve avvenire nella nostra relazione con Dio. Presenza vigile, innamorata. È cosí che la Parola prende vita e va diritto a intercettare quello che siamo in quel preciso momento. E allora un’espressione che molte volte ci è scivolata addosso senza lasciare traccia, assume un vigore, una forza del tutto particolare. Cosí agisce lo Spirito, ed è cosí che ciascuno di noi si trasforma in un commentatore autorizzato di quella Parola che, altrimenti, rimarrebbe confinata nella ristretta cerchia degli addetti ai lavori, condannata all’esangue nitore della sua estraneità. Ebbene, tra tutte le parole, una mi è parsa particolarmente densa, pesante, ed è quella che si trova a conclusione del brano. Il discepolo amato entra nel sepolcro dopo Pietro, vede e crede. Infatti, continua il racconto, «non avevano ancora capito la Scrittura secondo la quale Gesú doveva risorgere dai morti» (Gv 20, 9). In effetti, la difficoltà dei discepoli, lo scandalo che hanno dovuto affrontare e superare per divenire credenti, è consistito nel dover tenere insieme i due momenti dell’unica verità di Dio: quello della croce e quello della gloria, perché né la gloria in alcun modo svuota di senso la croce, né la croce compromette, appanna la gloria. Anzi, la gloria vera di Dio sta radicata nella croce e l’assume. E questo non per un’ardita speculazione teologica, ma perché questa sua precisa verità segna indelebilmente il nostro rapporto con lui e, in lui, con gli altri e con tutte le cose.
La croce, infatti, continua a custodire il criterio che permette di distinguere ciò che è divino da ciò che divino non è, quindi ciò che è umano da ciò che umano non è. Perché davanti alla croce l’uomo finalmente sa che cos’è l’amore e che lui, l’amore, lo può solo imparare riconoscendosi amato. Una gloria separata dalla croce, un Cristo glorioso separato dal Gesú sofferente non direbbe la verità di Dio. Di piú, tradirebbe l’uomo tradendo Dio che è amore.
Mi è sembrato in proposito illuminante quanto scritto da Silvano Fausti:

Ogni nostra idea su Dio e su Cristo deve misurarsi su questa carne. Chi non la conosce e riconosce, non è da Dio: non ha il suo Spirito (cfr 1Gv 4, 3). Parlando di carne, s’intende la condizione di debolezza, fragilità, esposizione al male che il Signore stesso ha condiviso con noi. Infatti «fu crocifisso per la sua debolezza» (2Cor 13, 4). Per questo Paolo scopre la croce come la grande rivelazione di Dio, ed esclama con entusiasmo: «Io ritenni, infatti, di non sapere altro in mezzo a voi, se non Gesú Cristo, e questi crocifisso» (1Cor 2, 2). «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete Io-Sono» (Gv 8, 28). Io-Sono, Jhwh, è conosciuto in Gesú innalzato sulla croce: dall’alto di essa Dio si esprime totalmente e si notifica al mondo. Solamente lí si può conoscere Dio nel Figlio (cfr Mc 15, 39) [...]. Il Crocifisso è l’epifania idiota (nel senso orginale di uomo semplice, senza cariche e riconoscimenti pubblici, ndr) di Dio, il manifestarsi a noi della sua sublime altezza.

Qui sta tutto, e perciò deve bastare. Se non basta, dobbiamo avere il coraggio di ammettere, a noi stessi e agli altri, che non c’è altro. O che, se altro c’è, è pericoloso come lo sono tutte le illusioni che qualcuno deve sempre pagare.