Il teatro secondo Pier Paolo Pasolini

di Gianni Poli

Indicate da sigle, le citazioni nel testo sono tratte da:
(PT) P. P. Pasolini, Teatro (cura di W. Siti e S. De Laude), Mondadori 2001.

(CP) S. Casi, A. Felice, G. Guccini (cura di), Pasolini e il teatro, Marsilio 2012.
(TC) L. Ronconi, G. Capitta, Teatro della conoscenza, Laterza 2012.

Aumenta, con il passare degli anni – centenario questo della nascita – la difficoltà di leggere e capire l’opera di Pier Paolo Pasolini. Eppure, è necessario lo sforzo di un’interpretazione che, per quanto sfuggente e laboriosa, consenta di misurarci nello stesso transito culturale per accogliere quanto abbia potuto lasciarci l’autore in eredità, e artistica e intellettuale.

Nutrirsi della parola

Ci apparvero le parole, gli improperi della sua drammaturgia, quando già conoscevamo poesie e romanzi e dopo che i suoi film ci avevano turbato, confrontandoci con miti lontani e urgenze tanto vicine da lasciarci impotenti e/o delusi ai tentativi di decifrazione; seguendo profezia o tensione utopica, affascinati dalle immagini. Un teatro, il suo, che nasceva polemico verso il linguaggio della scena, in copioni cadenzati in versi, non ricalchi dei dialoghi parlati dai borgatari romani o dai benestanti borghesi che l’autore frequentava.
Pasolini aveva pensato e scritto teatro per vocazione nativa, ma lo aveva nutrito a lungo in segreto. Quando negli anni Sessanta la funzione della parola teatrale veniva contestata, intervenne decisamente per restituirle piú ampio il suo primato, nel dibattito che imponeva all’intellettuale di assumersi maggiore responsabilità. A chi si opponeva al neorealismo, verbale o d’ambientazione, promuovendo la pregnanza della corporeità e l’immagine visiva, il poeta e romanziere concepiva la riforma di un linguaggio degradato nell’esprimere la realtà. Come la poesia, cosí il teatro doveva nutrirsi della parola. Non parola comune, avvilita dall’uso nella civiltà dei consumi, ma recuperata come nuova dalla tradizione. Impresa problematica, assillo eterno dei poeti (CP, p 77 e p 185), dei quali Pasolini si rende compagno. Sono i fautori della parola teatrale poetica (pensiero e memoria in azione) – Claudel, Cocteau, Crommelynck, De Ghelderode, Genet e, da noi, Testori, Ruccello, Luzi – tutti in tenzone con i registi, veri arbitri nelle scelte estetiche e organizzative. Cosí, dall’inizio, Pasolini (La sua gloria, primo dramma, 1938, Edipo all’alba, 1942) progettava un continuum drammaturgico d’affabulante pensiero, tormentosa indagine di rapporti fra persone (fantasmi pirandelliani?) proiettati sulla scena: il suo modo di rimettere in gioco sé stesso, criticando e denunciando la società.

Continua sul Gallo stampato… e nel seguito:

  • Un magma unico colato in sei drammi
  • Il trauma in spettacolo
  • Ripugnanti metafore
  • Pudore violato