Un pensiero nonviolento: Gianni Vattimo
appunti raccolti da Enrico Peyretti
Ho chiesto all’amico Enrico Peyretti un ricordo di Gianni Vattimo, uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei, scomparso lo scorso 19 settembre, noto forse soprattutto come teorico del pensiero debole. Peyretti, che lo ha conosciuto di persona e ne ha frequentato il pensiero, mi ha lasciato un suo testo e mi ha indirizzato a un illuminante intervista rilasciata nel 2021 a Cristina Guarnieri e ora riproposta dall’associazione Filosofia in movimento di cui faceva parte lo stesso Vattimo. Utilizzo liberamente queste fonti per ricostruire qualche linea del pensiero del grande filosofo.
u.b.
Mi pare molto efficace accesso al pensiero di Vattimo un passo dell’intervista di cui dicevo:
Essere libero è la ragione per cui sono credente. Se sono libero è perché nasco da una libertà. La libertà per me è il fatto che nessuno possa argomentare filosoficamente contro il fatto che io mi senta libero. Non esiste la libertà scritta da qualche parte. Esiste la libertà come atto di qualcuno che decide liberamente. Anche per Kant si trattava di qualcosa del genere. La libertà è un atto che esiste nella misura in cui si afferma, non è qualcosa che si possa definire in astratto.
E, forse, ancora piú lucido:
Soltanto la carità può sostituire la verità. Non è tanto la verità che conta, ma la carità verso l’altro, che comporta un’apertura all’altro. Questa apertura fa cadere anche la verità, in qualche modo. [...] Non è l’idea di verità che mi sta a cuore, ma l’idea di carità.
Al centro del pensiero di Vattimo dunque la vita, l’essere e non un sistema fatto di sicurezze o di verità: e questa intuizione muove da uno specifico carattere del cristianesimo, la kenosis, che non pretende verità da contemplare, ma prassi secondo cui vivere:
La kenosis, l’indebolimento, la debolezza di Dio, è il senso del cristianesimo, non un accidente negativo. [...] Il Dio del cristianesimo è un essere che si dà giustappunto nella misura in cui lascia essere gli esseri, gli enti. Dio non si dà in presenza, perché altrimenti tutto il resto sparirebbe. Si dà sottraendosi.
Dunque pensiero debole significa, in sostanza, una visione senza pretese definitorie né sacrali, quindi – e proseguo con le parole di Enrico Peyretti che considera proprio la ricerca di Vattimo uno dei fondamenti e delle motivazioni del pensiero nonviolento –: un pensiero incerto, incapace di chiare interpretazioni e indicazioni, privo di forza teorica! Vattimo lo accettò, lo fece suo, con ironia. Ma forse debole, incapace, non è stato il suo lavoro di pensiero, ma debole l’immagine dell’essere (senza la maiuscola) che ha ritenuto di presentarci. L’essere, per Vattimo, non si presenta come una piattaforma solida che sorregge tutte le particolari realtà, e ne dà ragione, ma quasi come un elemento fluido nel quale le realtà galleggiano incerte, e noi stessi, e Dio stesso, come in un continuo cercare il proprio essere, senza imporre certezze. Ciò non rende le cose uguali al nulla, non toglie affatto dignità a ciò che è e vive, né il rispetto dovuto, non dà licenza di distruggere, ma assume l’umiltà di tutto, toglie pretese di verità rocciosa, di diritti superiori, di potenza sfrenata.
Il suo pensiero debole non è un nichilismo, non è un relativismo assoluto. È una mitezza, a volte insistente, che vede dei valori, o dei beni inviolabili della persona umana, che va difesa proprio da ogni assolutismo, come è la violenza. Probabilmente Vattimo preferiva l’espressione negativa, nonviolenza, a quella affermativa gandhiana «forza della verità». Ma anche Gandhi dichiarava il proprio «fallibilismo», e cercava in continuazione, al di là di ogni formula, la difesa di ciò che vive da ciò che domina, offende e uccide. La tolleranza, il pluralismo, la dinamica vitale, sono caratteri di un amore per la vita ascoltata e non modellata da principi sovrapposti a essa.
Se fragile è tutto l’essere, fragile è anche l’essere di Dio. [...] Nell’uomo Gesú, per la fede e l’intelligenza cristiana delle cose, Dio appare debole, esposto al rifiuto violento. La condanna atroce del Giusto, in cui vive Dio, all’ignominia e alla tortura della croce, è il segno maggiore della debolezza di Dio: solo Dio è cosí veramente forte nell’amare fino a potere spendersi totalmente, per fedeltà vissuta all’annuncio che il Bene, offerto indifeso, ricolma l’abisso del Male, e non una forza opposta alla forza del male. Non è con una potenza competitiva, ma con il patirlo, caricarsene, esaurirlo, rovesciarne il senso, che l’Amore libera il mondo dall’Odio.