Natale d’altri tempi a Scachetrà

Da Il Gallo, dicembre 1950
di Giacomo Marsano

In ogni famiglia un presepio, dai presepi ristretti sopra un tavolino, nella camera da letto o in cucina, a quelli vasti e assai lavorati dei Bèci, degli Sciammadda, della società di san Giuseppe. Si facevano a grotta, un po’ per sera prima di coricarsi, adoperando carta straccia a macchie rosse verdi blu, disordinando l’intera casa.
I fanciulli svolgevano incarichi importanti. Porgevano chiodi, spilli, indicavano dove stava bene una montagna, un fiume, un ponte, una casetta. I piú grandicelli andavano nei boschi per borraccina; andavano per sassi e per sabbia lungo la riva.
Oggetto di cure diligenti la Capanna, gli angeli che la sorvolano, il “Gloria in excelsis Deo”, le figurine di gesso, le candide gregge. Un lume a olio teneva a Gesú Bambino mistica compagnia.
Il Natale era una festa di famiglia. Dal mattino presto, uomini e donne si agitavano in cucina davanti ai fornelli. Si mangiavano, tra l’altro, i tradizionali maccheroni in brodo, la frutta secca e il pandolce. I figlioletti ponevano sotto il tovagliolo del babbo e della mamma la letterina scritta a scuola.

«Cattivo, impertinente
io non sarò mai piú!».

Promesse fatte e, un attimo dopo, già dimenticate.

«O mamma, ne l’azzurro indefinito
vorrei con te volar,
prostrarmi al piccol Re de l’infinito
e il labbro suo baciar».

Nel pomeriggio le strade vuote; le osterie, i bar, i luoghi di divertimento chiusi. Si restava a tavola dal mezzodí a sera inoltrata, piluccando, bevendo, cantando.

«Fiorin d’amore,
vidi una stella su l’azzurro mare
e un inno canta nel mio picciol cuore.

Raggio di luna,
squillo di gloria ne la notte vola;
scendon gli angeli a frotte a la sua cuna.

Fior di mortella,
un sussurro di gioia hanno i pastori
e belano d’amor le bianche agnella».

Intrecci di chitarre e mandolini. Suono di fonografi.
Nel pomeriggio del giorno seguente le visite ai presepi. A gara, sotto gli occhi lucenti delle mamme, fanciulli recitano le poesie di Natale.

«Maria lavava,
Giuseppe stendeva,
il Bambino piangeva
dal sonno che aveva».

Oppure:

«È nato il sovrano Bambino.
La notte che già fu si buia,
risplende d’un astro divino.
Orsú, cornamuse, piú gaie
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane!».

O ancora:

«O dolce Bambino
che scendi a l’algore
del verno quaggiú,
io t’offro, o Divino,
il freddo mio cuore.
Infiammalo Tu».

E avanti, fino alle poesie storico-idumee:

«Dai colli fioriti di Ebron
il bianco profeta parlò.
E disse:
– Il forte Signor de le schiere
s’avanza dal piano, dal mar,
e cadon le cime superbe
dinanzi al suo braccio d’acciar».

Fino alle applicazioni morali:

«Scherza il lupo con l’agnello
gioca il cervo col leone;
dove prima era tenzone
sorge un patto d’amistà».

Poi la stella cometa splendeva nel cielo d’oriènte. E, nella rigida notte inverale, i cammelli trasportavano Baldassarre, Gaspare e Melchiorre.

«Stan ravvolti entro i lor manti
e dai ricchi drappi d’oro
spuntan, candide, due barbe e un camuso volto moro.
Il piú vecchio ha gli occhi stanchi
perché stanco di scrutare
da trent’anni entro quel buio
piú profondo d’ogni mare.
Gli altri due che a pari vanno,
su l’aerea meraviglia
de la notte di Gennaio
tratto tratto apron le ciglia».

Contemporaneamente anche la Befana partiva dal paese degli incanti. Era vecchia, brutta, col naso aquilino. A vederla avrebbe messo paura.
Camminava sopra i tetti delle case infilando le mani, colme di doni, nelle gole dei camini. Riempiva calze, riempiva scarpe, la Befana. Ottima con i buoni, men buona ma tuttavia indulgente, con i cattivi. Sapeva tutto lei, eppure nessuno glielo riferiva. Conosceva persino i desideri che si sforzava d’appagare.
I bimbi la sognavano ridendo durante la notte. Al primo sole balzavano da letto senza che la mamma li destasse, correvano a prendere le calze, le scarpe, chiamandosi interrogandosi dalle finestre e dai terrazzi. E compiangevano i grandi che, da un pezzo, la Befana aveva tolto dall’elenco dei suoi beneficati.