Abbigliamento e religioni
a cura dei Galli
Le prime speculazioni volte a individuare la componente simbolica delle esperienze religiose e delle loro manifestazioni si ebbero nelle discussioni sul romanticismo nel gruppo che si riunisce nell’università di Heidelberg e furono enunciate programmaticamente nel saggio: Simbologia e mitologia dei popoli antichi, specialmente i greci di Friedrich Creuzer, pubblicato in successive edizioni nei primi decenni dell’ottocento. La parola simbolo deriva infatti dal verbo greco sunballein, letteralmente gettare insieme, e Platone sosteneva che simbolo significa uno composto da due. Quasi ogni pratica legata alle religioni ha una forte valenza simbolica, ogni liturgia è un complesso di formule, azioni, cerimonie simboliche che continuamente vogliono richiamare la presenza del soprannaturale. Quindi, in ambito religioso, il simbolo è, o dovrebbe essere, essenzialmente un linguaggio, verbale e figurato, per evocare il divino, per riconoscere nel visibile segni di trascendenza.
Tuttavia, bisogna riconoscere che spesso l’utilizzo di simboli religiosi si accompagna a un prevaricatore esercizio di potere particolarmente evidente nel rapporto tra religione e abbigliamento. In questo contesto occorre distinguere due aspetti: da una parte l’abbigliamento dei ministri e dall’altro quello dei semplici adepti. In entrambi i casi l’abito ha una funzione identitaria e già su questo c’è da obiettare la trasposizione dell’essere sull’apparire. Ma, mentre nel primo caso indica anche una sorta di supremazia (magari mascherata da servizio), nel secondo sancisce una forma di obbedienza dovuta. Ciò è evidente soprattutto per quanto riguarda la componente femminile. Presso tutte le culture, infatti, vale l’antico detto misogino di Menandro (commediografo greco del IV sec a C): mare, fuoco e donna, tre mali e si moltiplicano gli strumenti per limitare e controllare il comportamento delle donne.
A questo proposito ricordiamo la prima lettera di Paolo ai Corinti 11, 3-16, questo lungo, contorto e contraddittorio testo di Paolo sembra emblematico della natura del problema: da un lato traspare prepotente la volontà di dominio degli uomini sulle donne; dall’altro però trapela anche l’eco del messaggio liberante di Cristo con il riferimento a Dio che ha creato entrambi (pari) e alla possibilità anche per le donne di annunciare la parola di Dio. L’elenco delle imposizioni, magari con la maschera del comando divino, potrebbe continuare a lungo. E, se per liberare le donne occidentali del velo sono occorsi secoli, oggi il nostro mondo si scontra con i diversi veli imposti alle donne islamiche: hijab, niqab, chador, burqa, e non ultimo il burqini (crasi tra burqa e bikini,parola macedonia composta dai due termini che significa costume da bagno femminile a copertura integrale indossato da alcune donne islamiche) di cui si è tanto discusso nelle cronache della scorsa estate.
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