2016 aprile

Argomento:
SOCIETÀ,  SVILUPPO E CETO MEDIO

Nello scorso febbraio, parlando di pace nei suoi diversi significati, abbiamo fatto cenno di come ogni singola persona possa diventare costruttore di pace a partire dalla gestione della propria quotidianità, nel lavoro, in famiglia e nel sistema complessivo delle relazioni intrattenute. Per il cristiano è forte il richiamo evangelico a patire da sé stesso prima di puntare il dito verso gli altri: dobbiamo noi, in prima persona, farci testimoni dell’amore che ci ha insegnato e testimoniato il Cristo e, senza questo impegno, il rischio è di fare dell’intellettualismo o del buonismo.
Posta però questa comunque imprescindibile premessa, il nostro sguardo di uomini e di cristiani deve essere attento a chi la pace non la vuole affatto e pone la propria esistenza, qualunque ne sia il motivo, entro logiche tutt’altro che pacifiste, veri e autentici distruttori di pace, agendo per esempio nella dissoluzione del tessuto sociale, in una politica che favorisce le sperequazioni e nega le tutele e i servizi necessari. Non dobbiamo, quindi, avere occhi solo per i fatti evidenti di violenza, ma, a prescindere dalla nostra capacità politica e sociale di arginarli o arrestarli, dobbiamo pensare a iniziative, operazioni, provvedimenti istituzionali che costruiscano condizioni pacificate di vita.
Per chi delinque, commettendo reati, abbiamo strumenti legislativi e repressivi efficienti, salvo usarli tempestivamente e correttamente: ma come impedire di nuocere a coloro che pianificano a tavolino crisi economiche di interi paesi? Quali gli strumenti per fermarli? Che cosa si può fare quando una grossa fetta della governance è corrotta e appare tranquillamente in televisione con l’accattivante languido volto dell’innocenza a dichiarare la propria azione a esclusivo bene del paese?
Nei secoli passati si riconosceva nelle classi proletarie una permanente tensione rivoluzionaria, animata dalla speranza di raggiungere una condizione di vita piú umana, e nella aristocrazia e nella borghesia, soddisfatte del proprio benessere, una determinazione alla conservazione nel timore che un rovesciamento delle strutture sociali con una piú equa distribuzione dei beni avrebbe ridotto la loro ricchezza. La società occidentale negli ultimi decenni ha portato a una dilatazione del ceto medio grazie alla mobilità verticale del proletariato, che nella crisi di questi anni ha subito una riduzione di benessere e una insicurezza aggravata dalla contrazione dei servizi garantiti dal welfare.
Quel ceto medio che lavora onestamente e non ha piú di tanto l’ossessione della ricchezza, ma teme di ridurre la qualità della propria vita e di quella dei figli, cerca ora di conservare a ragione i diritti acquisiti in decenni di lavoro e, per molti, anche di impegno sociale e politico. In questo scenario, dall’imprevedibile sviluppo, anche per la drammatica interferenza di due fattori sempre meno eludibili, il limite delle risorse con il degrado ambientale e le inarrestabili migrazioni, si avverte la sempre piú grave assenza della politica, corrotta, subordinata alla finanza e a piccole oligarchie interessate solo a conservare privilegi nonostante il rischio di dissolvere il tessuto sociale. Salvo eccezioni, di fatto deboli, chi esercita la politica è impegnato piú a costruire consenso, spingendo a consumi superficialmente appaganti, che alla soluzione di problemi per il futuro dei figli.
Francesco parla di economia di morte, ma neppure chi lo applaude appare impegnato a studiare nuovi modelli di società. Purtroppo, per uscire dalla crisi, si considera come successo il ritorno a dati economici a statistici di anni addietro, ma non avvertiamo cenni di progettazioni di nuovi modelli di sviluppo economico sostenibile, rispettoso e solidale, terreno di cultura della pace a cui diciamo di aspirare.