Attento a come parli!
di Davide Puccini
Quando da piccoli stavamo imparando a leggere e scrivere capitava spesso, prima di aver preso confidenza con le parole, di incappare in buffi errori. Alzi la mano chi non ha mai scritto l’apis invece del corretto il lapis o il lamo anziché l’amo. Personalmente, ricordo che in quei tempi in cui non esisteva ancora la televisione e le notizie dal mondo ci arrivavano attraverso la radio, ero tentato di scrivere l’aradio. Renato Fucini, in uno dei suoi sonetti in vernacolo pisano, riferendosi alla torre pendente, scrive scherzosamente «All’Ondra nun ce l’hanno, e ci scommetto», invece di A Londra.
Nessuno si scandalizzi. Questo errore è tanto comune che i linguisti l’hanno incasellato in una definizione scientifica: concrezione e discrezione dell’articolo, cioè l’articolo rimane appiccicato alla parola che segue (il lamo) o ne viene estratto (l’apis). Nell’italiano antico Germania si diceva alla francese Alemagna o piú comunemente Alamagna. Ebbene l’Alamagna è diventata prima la Lamagna e poi, a forza di tirar fuori l’articolo, la Magna.
Ma, si dirà, questo succedeva nell’italiano antico. È successo anche nell’italiano moderno. Prendiamo l’uccello piú melodioso che ci sia, l’usignolo. I nostri antenati scrivevano il lusignolo e avevano ragione, perché la parola deriva dal latino lusciniola: siamo noi che abbiamo preso per buona una discrezione dell’articolo. Cambiamo argomento. Se uno che ha perso tutti i suoi averi in borsa o al gioco scrivesse «Sono ridotto sull’astrico», si sentirebbe dare, oltre che del morto di fame, anche dell’ignorante, e invece non avrebbe tutti i torti, perché lastrico deriva dal latino medievale astracum per concrezione dell’articolo.
Da quanto abbiamo detto si vede chiaramente come fosse nel giusto il buon Manzoni quando affermava che è l’uso a fare la regola e non la regola l’uso (sebbene gli studenti non si trovino nella condizione migliore per apprezzare questa verità). Insomma, se un errore di ortografia viene ripetuto da tutti, piano piano diventa una regola. Un altro esempio? Lasciamo perdere il povero articolo, che abbiamo anche troppo bistrattato. L’acne giovanile è frutto di una svista: viene dal greco acme, che vuol dire culmine, apice (e ha pure trovato posto nella nostra lingua), perché i brufoli sono a punta. Ma qualcuno ha sbagliato a copiare, tralasciando una zampetta: ed è nato l’acne.
La pronuncia dell’italiano
Si dice che l’italiano, a differenza di altre lingue, si legge come si scrive, e tutto sommato è vero. Eppure nella pronuncia si sentono molti errori. Cominciamo col dire che quando a scuola ci hanno insegnato che le vocali sono cinque ci hanno imbrogliato, perché in realtà sono sette: tra é ed è, ó e ò c’è una sostanziale differenza, in quanto hanno carattere distintivo, come tra pésca e pèsca o la bótte e le bòtte. Ma quasi soltanto in Toscana si è in grado di rispettare spontaneamente questa differenza, mentre nell’Italia settentrionale e meridionale si sbaglia quasi sempre in un senso o nell’altro.
Le cose non vanno meglio con le consonanti. C’è una bella differenza tra la s sorda di casa (senza vibrazione delle corde vocali) e la s sonora (con vibrazione delle corde vocali) di rosa. Al nord si pronuncia tutto con la s sonora e al sud con la s sorda. Anche in Toscana qualcuno pronuncia casa con la s di rosa: fa fino, ma è una fesseria.
Con l’accento tonico le cose si complicano ancora di piú. Oggi si sente spesso dire èdile invece del corretto edíle (la pronuncia, in questo come in molti altri casi, dipende dal latino), tanto che qualche vocabolario ha cominciato a registrare la dizione sbagliata, pur dando come giusta l’altra. Si dovrebbe dire gratúito e non gratuíto, e si potrebbe continuare.
Ma fin qui poco male. Le cose vanno peggio quando l’accento distingue parole diverse. Nelle telecronache delle gare di Formula 1 si sente circuíto, che è il participio passato del verbo circuire, invece del corretto circúito. Ai tempi del disastro di Chernobyl, un giornalista televisivo fece piú volte riferimento al nocciòlo del reattore, anziché, come è ovvio, al nòcciolo.
E ancora peggio le cose vanno quando si vuole usare una parola difficile che non ci sarebbe alcun bisogno di usare, e si sbaglia l’accento. Un notissimo presentatore (si dice il peccato ma non il peccatore), in un bellissimo teatro antico (mi pare fosse quello di Taormina), per designare lo spazio riservato al pubblico sulle gradinate parlò di cavèa, certo influenzato da platea: ma purtroppo per lui si dice càvea. C’è poco da ridere, ma non si salva nemmeno la terribile epidemia di coronavirus che tutti ci coinvolge: un inviato speciale ha lamentato la mancanza di prèsidi sanitari, invece degli opportuni presídi (plurale di presidio, non di preside).