Come ascoltare un malato che tace?

di Manuela Poggiato

È sera, fuori è buio. La mia lunga guardia sta per finire, ma c’è ancora un paziente da visitare. Mentre mi avvicino alla camera sento l’infermiere che gli grida scandendo bene le sillabe: «Co-me-si chi-a-ma? Sa-do-ve-si-a-mo?». Entro nella stanza. «Dottoressa, questo signore non parla! È afasico. Vede, dottoressa? Non avrà mica un ictus? Perché se è cosí deve essere ricoverato in Neurologia, in Medicina non può stare». Conosco bene questo malato, è stato da noi poco piú di un mese prima, si chiama Giovanni, è sardo e nel ricovero precedente sono accadute le stesse cose. Qualche giorno dopo ci ha raccontato la sua storia.

Anche qui dove mi conoscono bene mi chiamano Giovanni, ma io sono Puddu, Puddu lo volete capire? Sono venuto qui, venuto si fa per dire, mi ci hanno portato quelle lí, le mie badanti hanno detto che non parlo, che non riesco ad aprire bocca… pensano a un ictus… MA NON È VERO!!! Non è vero! Vero è invece che non ho piú nulla da dire, che non ho piú parole… che sono sardo e che ho sempre parlato poco. Pochi mesi fa mi è morta l’unica persona con cui mi piaceva parlare, mia moglie, lei mi capiva anche quando stavo zitto e ora non ho piú nessuno con cui parlare, ma anche non ho piú nulla da dire. Sono solo, mi gestiscono le mie badanti, gestiscono la mia vita, la mia dieta, il mio diabete, la mia cirrosi, me… E ci si mettono anche questi qui in ospedale dove mi dovrebbero capire. Il dottore del Pronto Soccorso mi fa le domande che si fanno ai bambini, questo infermiere mi chiede se so dove siamo… Cosa crede, che io sia stupido? Non merita neppure che io gli risponda, ma cosi penserà sul serio che ho avuto l’ictus… Non ho parole…

Come si fa ad ascoltare una persona che piange?
Il mio rientro dalle vacanze natalizie era stato difficile. I giorni di festa sono sempre dannosi per chi è malato: pochi medici, attività per vari giorni ridotte alle sole urgenze, tanto lavoro arretrato… malati ovunque. Il fatto che il giorno dopo un paio di pazienti sarebbero stati trasferiti in hospice aiutava a migliorare almeno la situazione numerica. Alessia, una collega, mi aveva però avvertito che la sorella di uno di questi pazienti non era convinta del trasferimento, riteneva questo ingresso troppo precoce, era in qualche modo seccata con noi e sarebbe venuta a parlarmi. La mattina della dimissione arrivo al lavoro già stanca, piena di pensieri, prevendo problemi. Vedo la signora in fondo al corridoio, viene verso di me, ma non mi dice nulla: conferma solo l’arrivo dell’ambulanza. Io intanto visito un’altra persona, mi chiamano al telefono, un’infermiera mi cerca, ma con la coda dell’occhio non posso non notare che lei è appoggiata al muro, sola, e in silenzio piange.
Appena posso la raggiungo e, accompagnandola nell’unico spazio in cui posso parlare con lei senza disturbi – un corridoio pieno di carrozzine –, le metto il braccio intorno al collo. Non la conosco, la vedo per la prima volta, ma mi sembra che con questo gesto si sia già creato un buon rapporto. Lei non parla, non può, impegnata come è a non scoppiare ancora in singhiozzi e a soffiarsi il naso quindi tocca a me dire qualcosa anche perché gli ambulanzieri hanno fatto il loro ingresso in reparto.
Sulle prime non mi viene niente, ma poi decido di parlare di me. Le racconto dei tanti miei famigliari e amici che hanno passato gli ultimi loro giorni in hospice perché nessuno deve mai arrivare a preferire la morte rispetto a una vita piena di dolore, angoscia, sofferenza per sé e per gli altri. I prossimi saranno i giorni da dedicare ai ricordi reciproci, al dirsi cose non ancora dette e che poi non si avrà piú il tempo di dire, al guardare le foto insieme e se non si è capaci di tutto ciò al solo tenersi la mano. Lei mi guarda e continua a tacere. Le lacrime le riempiono ancora gli occhi che mi sembrano piú chiari e luminosi come se avessero trovato un appiglio, un gancio in mezzo al cielo…
Ma ascoltare è difficile. Bisogna prima di tutto uscire dalla religione dell’io. Tacere, mettersi da parte, fare un passo indietro, almeno per qualche istante

La religione dell’io continua, ipocrita con i suoi riti e le sue «preghiere» – tanti sono cattolici, si confessano cattolici, ma hanno dimenticato di essere cristiani e umani –, dimentica del vero culto a Dio, che passa sempre attraverso l’amore del prossimo. Anche cristiani che pregano e vanno a messa la domenica sono sudditi di questa religione dell’io. Possiamo guardarci dentro e vedere se anche per noi qualcuno è inferiore, scartabile, anche solo a parole. Preghiamo per chiedere la grazia di non ritenerci superiori, di non crederci a posto, di non diventare cinici e beffardi. Chiediamo a Gesú di guarirci dal parlare male, dal lamentarci degli altri, dal disprezzare qualcuno (Francesco, Omelia conclusiva del Sinodo dei vescovi per la regione panamazzonica, 27 ottobre 2019).

E poi non avere paura:

…perché nell’ascolto, molto spesso, sperimentiamo un senso di impotenza, ci sentiamo nella responsabilità di dover risolvere tutto ciò che ascoltiamo. Dobbiamo toglierci di dosso questa preoccupazione. Non siamo chiamati a salvare la vita di nessuno, è Gesú Cristo che salva la vita delle persone. Ci sono però alcune cose che possiamo fare noi con le nostre possibilità, ed è giusto che le facciamo. Ma tante altre cose sfuggono alla nostra possibilità. Pur di non incontrare l’impotenza, il non poter far nulla, preferiamo non ascoltare… Prestare noi stessi a una qualità di relazioni diverse non significa dover risolvere per forza tutti i problemi, ma non scappare da una relazione ed offrire in quella relazione l’unica cosa che è alla nostra portata, cioè l’ascolto (Luigi Maria Epicoco, Marta, Maria e Lazzaro. Tre meditazioni sui legami e l’amicizia, TAU Editrice, 2019).