Contro la guerra

di Manuela Poggiato

 

L’esistenza qui (nell’Himalaya indiana) è semplicissima. Scrivo seduto sul pavimento di legno, un pannello solare alimenta il mio piccolo computer; uso l’acqua di una sorgente a cui si abbeverano gli animali del bosco – a volte anche un leopardo… Qui tutto è all’osso… Qui dove si vive al ritmo della natura, il senso che la vita è una… è grande. Ogni cosa è legata, ogni parte è l’insieme.

Cosí all’inizio di Lettere dall’Himalaya, l’ultimo capitolo delle Lettere contro la guerra (Longanesi, 2002), il libro che Tiziano Terzani ha scritto nel lontano 2002 all’indomani dell’attentato alle Torri Gemelle. Il volume nasce come una lettera, neppure un vero e proprio articolo, quasi una lettera scritta di getto a un amico e inviata via mail a Ferruccio de Bortoli, allora direttore del Corriere della Sera, preceduta da un messaggio che diceva: «Vedi tu». Si intitolava Una buona occasione. Terzani vi raccontava

le ragioni dei terroristi, il dramma del mondo musulmano nel suo confronto con la modernità, il ruolo dell’Islam come ideologia anti-globalizzazione, la necessità dell’Occidente di evitare una guerra di religione, una possibile via d’uscita: la non-violenza.

La lettera uscí in prima pagina, occupandone un’altra interna, il 16 settembre 2001. Terzani aveva lanciato il sasso e continuò tranquillamente i suoi preparativi per svernare, come aveva deciso da tempo, sull’Himalaya. Con già in tasca il biglietto per Delhi, venne a sapere che Oriana Fallaci dalle stesse pagine gli aveva risposto

… il punto centrale della risposta di Oriana era non solo di negare le ragioni del nemico, ma di negargli la sua umanità, il che è il segreto della disumanità di tutte le guerre.

Terzani rispose, prima direttamente alla Fallaci, poi ormai partito per l’India, con una serie di lettere scritte a Peshawar, Quetta, Kabul e raccolte, appunto, in questo libro.

Nell’Himalaya indiana, 17 gennaio 2002. Ancor piú che fuori, le cause della guerra sono dentro di noi. Sono in passioni come il desiderio, la paura, l’insicurezza, l’ingordigia, la vanità. Lentamente dobbiamo liberarcene. Dobbiamo cambiare atteggiamento. Cominciamo a prendere decisioni… sulla base di piú moralità e meno interesse. Facciamo piú quello che è giusto, invece di quel che ci conviene… Riprendiamo certe tradizioni di concretezza, rimpossessiamoci della lingua, in cui la parola dio è oggi diventata una sorta di oscenità, e torniamo a dire fare l’amore e non fare sesso. Alla lunga anche questo fa una grossa differenza. È il momento di uscire allo scoperto, è il momento di impegnarsi per i valori in cui si crede. Una civiltà si rafforza con la sua determinazione morale molto di piú che con nuove armi. Soprattutto dobbiamo fermarci, prenderci tempo per riflettere, per stare in silenzio.

Mi vengono le parole che ha detto papa Francesco durante la messa celebrata a santa Marta il 6 aprile scorso: se fossimo capaci di prenderci cinque, dieci minuti ogni tanto e stare fermi senza far niente, senza televisione e radio, a pensare alle proprie cose, belle e brutte che siano, dopo le tristezze, certamente scopriremmo la bellezza della vita, della misericordia di Dio, della speranza e saremmo piú felici.