Dopo l’ascolto qualcosa succederà ?
di Cesare Sottocorno
La presidenza della Conferenza episcopale (CEI) ha pubblicato, il 15 di agosto, la sintesi nazionale della fase diocesana del Sinodo. Nel documento sono stati riassunti 200 testi prodotti dagli incontri avvenuti nelle diocesi e 19 relazioni elaborate da altri gruppi, per un totale di piú di 1.500 pagine. In questa prima fase si sono formati circa 50.000 gruppi, ai quali ha partecipato mezzo milione di persone coordinate da piú di 400 referenti diocesani. Sono state coinvolte non solo le Chiese locali, ma anche
i mondi della politica, delle professioni, della scuola e dell’università, fino ai luoghi della sofferenza e della cura, alle situazioni di solitudine e di emarginazione.
Spazio all’ascolto
Un percorso ampio ed eterogeneo che, pur avendo raggiunto diverse persone, soprattutto nelle parrocchie, ha però solo sfiorato alcune realtà anche ecclesiali e in altre ancora non è neppure arrivato. Là dove, durante il cammino sinodale, nonostante le difficoltà, prima tra tutte quella dovuta alla «paura di attivare un processo destinato semplicemente a lasciare le cose come stanno», si è dato spazio all’ascolto, al confronto e allo scambio di idee, sono emerse problematiche che, da tempo, «affaticano» il passo della chiesa:
il clericalismo, lo scollamento tra la pastorale e la vita reale delle persone, il senso di fatica e solitudine di parte di sacerdoti e di altre persone impegnate nella vita della comunità, la mancanza di organicità nella proposta formativa, l’afasia di alcune liturgie.
Si è fatta inoltre strada, durante gli incontri, la possibilità di una chiesa «tutta ministeriale» nella quale, a diversi livelli, siano corresponsabili carismi e ministeri diversi, superando la visione di una chiesa costruita intorno al ministero ordinato.
Nel documento tuttavia non vengono citati i punti chiave emersi sia dal sinodo amazzonico, sia da quello dei vescovi tedeschi, come quello dei viri probati e del maggior ruolo, in ambito ministeriale, per le donne, tematiche da ascoltare, ma considerate ancora come strade da non percorrere.
Problematiche già affrontate (si era nel 1964) dalla Lumen gentium:
I laici quindi, anche quando sono occupati in cure temporali, possono e devono esercitare una preziosa azione per l’evangelizzazione del mondo. Alcuni di loro, in mancanza di sacri ministri o essendo questi impediti in regime di persecuzione, suppliscono alcuni uffici sacri secondo le proprie possibilità.
Dieci nuclei
Le riflessioni sono state organizzate in dieci nuclei: ascoltare, accogliere, relazioni, celebrare, comunicazione, condividere, dialogo, casa, passaggi di vita e metodo. Alcuni sono espressi come verbi, altri come sostantivi per rispettare le modalità con cui sono stati affrontati e allo scopo di custodire il fondamentale pluralismo delle chiese in Italia.
Insieme al discernimento, il primo frutto del processo sinodale è stato l’ascoltare e il sentirsi ascoltati. Si è detto che occorre mettersi in ascolto dei giovani, delle vittime degli abusi sessuali e di coscienza, «crimini per cui la chiesa prova vergogna e pentimento», di chi ha subito diverse forme di ingiustizia, ma anche dei luoghi, della gente che vi abita che ne conosce la storia e le tradizioni. Ascoltare, in particolare le donne e gli uomini in situazione di povertà, è riconoscere il valore di chi ci sta di fronte, è in relazione con l’ascolto della Parola perché è nella vita ordinaria che ci è dato di incontrare il messaggio evangelico.
Coloro che si sentono parte di una comunità ecclesiale devono saper accogliere, valorizzando le persone che abitano un territorio, «fare uno sforzo di apertura verso chi rimane sulla soglia». Si è ipotizzata la creazione di un ministero di prossimità per laici che siano capaci di tradurre nella pratica quotidiana l’inclusione. Per avviare un vero processo di rinnovamento, occorre dare voce a questioni che spesso si sono evitate quali le problematiche del mondo giovanile, la custodia e la vicinanza agli anziani, il farsi prossimo verso le persone ferite dalle vicende della vita, emarginate per la diversità di genere, di orientamento sessuale, culturale e sociale.
Una chiesa che ascolta e che accoglie può veramente diventare punto di riferimento per i cambiamenti sociali del nostro tempo. Si pensi alla drammatica situazione delle persone costrette dalla fame e dalla guerra a lasciare il loro Paese, all’integrazione dei migranti che arrivano nel nostro mondo sperando in una vita migliore. Certo non sono mancate attenzioni ed esperienze come quelle della Caritas, ma è auspicabile un maggior coinvolgimento delle parrocchie.
Prima l’essere umano
L’essere umano, che sia donna o uomo, a tutte le età, «viene prima delle cose da fare e dei ruoli». Diventa allora necessario, se non inevitabile, il bisogno di imparare a vivere relazioni piú attente verso l’altro. I preti, per primi, sono chiamati ad essere «maestri di relazione». Non è facile, come è stato sperimentato da molti che animano le parrocchie, superare i conflitti, accettare sconfitte, sopportare fatiche e delusioni, ma si riescono ad affrontare le situazioni di fragilità e le diverse forme di solitudine che a volte gli stessi preti vivono, le situazioni di fragilità e di marginalità solamente camminando insieme e avendo a cuore le relazioni nella comunità.
Gli incontri hanno messo in evidenza il desiderio di una conoscenza piú approfondita della Parola di Dio. Per la maggioranza delle persone la celebrazione eucaristica rimane però l’unico momento di partecipazione alla comunità. Si è rilevata una scarsa cura delle celebrazioni e, di fronte a quelle definite «liturgie smorte», ridotte a spettacolo che non arrivano a toccare la vita dei fedeli, «risulta urgente un aggiornamento del registro linguistico e gestuale». La stessa riscoperta della pietà popolare, se sfrondata dalle potenziali ambiguità, può diventare occasione di crescita di una coscienza civile e di costruzione dell’identità cristiana e comunitaria delle parrocchie e dei territori.
Chi scrive ha vissuto, da giovane, gli anni in cui la celebrazione eucaristica si preparava insieme: si sceglievano i canti, si commentavano le letture, si preparava la preghiera dei fedeli prendendo spunto dalle vicende del tempo. Quanto all’aggiornamento del registro linguistico, si spera che non passino tanti anni come quelli trascorsi per l’edizione del nuovo messale.
Necessari nuovi linguaggi
Nell’analisi dei processi legati alla comunicazione è emerso che la chiesa trasmette ancora, in massima parte l’immagine non di un Dio misericordioso ma di un Dio giudice. Diventa quindi necessario, vista la rivoluzione digitale, apprendere nuovi linguaggi, utilizzare abilmente i media, essere capaci di trasmettere il messaggio evangelico in modo piú comprensibile e intervenire con chiarezza e competenza nelle problematiche del nostro mondo.
Fra i temi maggiormente discussi il condividere e la corresponsabilità. La chiesa appare troppo pretocentrica e questo fa venir meno l’apporto dei laici, soprattutto delle donne, ai quali sono affidati compiti marginali o meramente esecutivi. Per non dire delle religiose e delle consacrate considerate spesso solo «manodopera pastorale». In diverse comunità non funzionano o sono prive degli organismi di partecipazione. Se ne auspica il rilancio secondo
lo stile sinodale in cui le decisioni si prendono insieme e nella chiave del discernimento e non della democrazia rappresentativa.
Sempre nella Lumen gentium, al capitolo IV, 37 si afferma:
I pastori, da parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della chiesa e lascino loro libertà e margine di azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa.
Una chiesa afona
La chiesa vive la fede immersa nelle problematiche del mondo quali la cura della casa comune, i rapporti, spesso conflittuali, tra le generazioni, l’incontro tra culture diverse, la crisi della famiglia, il forte desiderio di giustizia, di pace e di disarmo. La sua voce, in riferimento a queste tematiche, è però «afona, chiusa, giudicante, frammentata» e poco competente. Manca quasi del tutto il rapporto con la società civile. Durante gli incontri si è affermato che occorre mettersi in discussione, essere aperti al confronto e al dialogo come è stato richiesto da molte realtà sociali e amministrative.
È necessario altresí ripensare alle comunità che non devono essere viste come centri di erogazione di servizi, ma assumere il compito che è proprio di una casa, di un luogo che sa accogliere, aperto, senza porte. Le comunità ecclesiali e i gruppi in cui si vivono cammini di fede e di vita intensi, se non costruiscono relazioni fraterne, rischiano di diventare spazi chiusi, bolle frammentate che non sanno valorizzare la pluralità delle sensibilità e le nuove proposte.
Non deve andare perduto il patrimonio formativo degli oratori, delle associazioni e dei movimenti, che, nel corso degli anni, ha animato le parrocchie. Tali esperienze, data la loro ricchezza, devono continuare ad accompagnare i passaggi di vita delle persone a tutte le età. Perché si riesca a camminare insieme, facendo diventare le famiglie soggetto e non destinatario dell’azione pastorale, diventa imprescindibile ripensare alla formazione dei preti, al ruolo dei seminari e al rafforzamento delle competenze delle laiche e dei laici impegnati nei diversi ministeri, argomento già affrontato su queste pagine con la recensione dell’esplicito Rifare i preti di Enrico Brancozzi (cfr Il gallo, dicembre 2021).
Diversi strumenti e metodi sono stati adottati durante il percorso sinodale. Sono stati somministrati questionari, organizzati incontri in piccoli gruppi, confronti assembleari, colloqui con singole persone e prodotti documenti di sintesi. Ne è nata la richiesta di attivare, come «prassi ordinaria, gruppi di ascolto e di discernimento». È emerso infine il timore che l’entusiasmo generato dai gruppi sinodali possa spegnersi, se non ci saranno cambiamenti concreti nella vita delle comunità.
Allora si può sperare?
La definizione di questi dieci nuclei ha consentito di individuare alcune priorità che saranno al centro della seconda fase del processo sinodale. Primo fra tutti il «prestare attenzione ai diversi “mondi” in cui i cristiani vivono e lavorano », con particolare attenzione a quegli ambiti che restano in silenzio o non sono ascoltati: il mondo delle povertà, gli ambienti della cultura, dello sport, del lavoro, delle istituzioni civili, del volontariato e del Terzo settore. In secondo luogo la verifica dell’effettiva qualità delle relazioni comunitarie e degli organismi di partecipazione.
Nel paragrafo conclusivo si afferma che, per sostenere il cammino sinodale in Italia, in comunione con il processo in corso a livello universale, si sono raggruppate le priorità in tre assi, chiamati «cantieri sinodali»: quello della strada e del villaggio, quello dell’ospitalità e della casa, quello delle diaconie e della formazione spirituale.
Il documento, oltre a testimoniare la vivacità dei dibattiti e l’impegno dei partecipanti, presenta una serie di proposte operative che possono veramente portare a un cambiamento di rotta nel mondo ecclesiale: hanno solo da essere messe in pratica. La creazione dei «cantieri sinodali» ci fa ben sperare: qualche perplessità desta però il nome. Sono infatti chiamati Cantieri di Betania, dal villaggio in cui Gesú, nel racconto di Luca (10, 38-42), è ospitato da amici. Una scelta poetica apprezzata da chi ha familiarità con i vangeli, ma oscura per chi non ne sa nulla. E il problema di un linguaggio comprensibile ripropone inquietanti interrogativi sulla reale volontà di comunicare con il nostro tempo.