2017 aprile

Gesú o Barabba? Alla richiesta di Pilato se rilasciare il mite annunciatore della misericordia di Dio o l’agitatore di popolo violento e omicida, la folla, sobillata dai capi dei Giudei e dai sacerdoti, non sembra avere dubbi: il ribelle vendicatore è piú facile da comprendere e piú rassicurante di colui che chiede un cambiamento dal di dentro, pone di fronte all’umana fragilità mettendo in discussione gli stili di vita.

E noi? Per chi ci saremmo schierati se ci fossimo trovati tra la folla? La risposta non è cosí scontata, perché è facile lasciarci trascinare nei processi mediatici, indignarsi, pretendere un capro espiatorio e accodarsi a un capopopolo. Certo indignarsi è importante. Di fronte al divario sempre crescente tra poveri e ricchi, di fronte alla disoccupazione dilagante soprattutto giovanile, ai soprusi, alla corruzione, di fronte alle sofferenze che colpiscono tante persone, di fronte alla fame, all’oppressione, allo sfruttamento, ma anche di fronte a certi «mezzi di comunicazione di massa che propongono come orizzonte ai nostri giovani solo un obiettivo di consumo di massa, il disprezzo per la cultura e per i piú deboli, l’amnesia diffusa della competitività sfrenata di tutti contro tutti» (come notava Stéphane Hessel concludendo il suo famoso opuscolo Indignatevi!) non si può restare indifferenti nel tepore del proprio quieto vivere. L’indignazione è il campanello di allarme che richiama all’impegno, alla solidarietà, al coinvolgimento: l’assenza di indignazione diventa indifferenza, connivenza, controtestimonianza. Gesú stesso si era indignato contro chi utilizzava la posizione pubblica per gli interessi personali o di casta, o contro l’idolatria del far soldi, mettendo in discussione quelli che si ritenevano giusti, attirandosi cosí le inimicizie fino alla condanna.

Riconosciamo quindi un modo di indignarsi che è rifiuto dell’indifferenza, sollecita alla responsabilità e all’individuazione di strade da percorrere e un altro che è sfogo e aggressione, senza interrogarsi sulle cause dei problemi e dei mali, fino all’accusa di presunti colpevoli, sempre estranei all’accusante, «poiché nessuno pensa che le sue sventure possano essere attribuite a una sua pochezza, ecco che dovrà individuare un colpevole» (Umberto Eco): un modo che fa illudere di essere innocenti e diventa deresponsabilizzante…

Allora si rischia, come per la folla di Gerusalemme, di convogliare la propria rabbia per il pesante giogo romano e per lo sfruttamento economico imposto dai pubblicani, in un «crocifiggilo», senza verificare quali colpe abbia davvero commesso chi si vuol condannare: è piú facile riconoscersi in una ribellione alla Barabba che mettere in atto una sincera e coraggiosa revisione di sé.

Forse dovremmo imparare da Gesú crocifisso: sono l’amore e la misericordia a vincere la morte. Per cambiare davvero occorre andare oltre il negativo da condannare, per vedere e assaporare il positivo da valorizzare, impegnandosi per testimoniare la speranza della condivisione e dare una mano, con gioia, ai tanti che si adoperano silenziosamente e con pazienza per far funzionare le cose, magari nel piccolo del loro ambiente di lavoro e di vita.