2016 luglio-agosto

Argomento:
IL VERBO FARE

Fare. Verbo con significato generico, di cui il buon maestro insegna a limitare l’uso, ma amato dagli elettori e quindi dai politici impegnati a rimuovere accuse di inerzia e a distinguersi da quelli che per la vulgata pubblicitaria non hanno fatto niente. Che gli amministratori pubblici siano lontani dalle esigenze dei cittadini, spesso perfino ignorate, siano inadeguati e inerti, ingabbiati da vincoli burocratici, da pretese lobbistiche, da veti incrociati e preoccupati quasi esclusivamente della propria conferma è purtroppo vero. Quando qualcuno accorto vanta di fare o di avere fatto il «volgo disperso solleva la testa» e applaude, e vota, senza porsi la domanda ineludibile: fare che cosa? L’uso intransitivo del verbo fare spesso si esaurisce nelle dichiarazioni, oppure rimanda a un agire inutile o addirittura dannoso: il verbo è transitivo e chiede un complemento oggetto. Quello sarà da valutare.

Fare che cosa? Si possono fare cose – e anche questo sostantivo è sconsigliato da chi insegna a scrivere – che sarebbe stato meglio non fare, talvolta neppure sotto la spinta emozionale di richieste popolari. Il verbo fare diventa credibile solo se preceduto da altri: per esempio studiare, progettare, verificare. E accompagnato da avverbi come onestamente, correttamente, utilmente. Anche le mafie hanno indubbie capacità di fare: molto, tempestivamente, efficacemente, ma non a vantaggio della comunità e non sono certo esempi da seguire.

«E voi che cosa fate per la chiesa?» è la domanda con cui il cardinale Martini sollecitava chi gli esponeva sulla chiesa obiezioni condivise anche da lui, ma quelle obiezioni devono poi generare comportamenti nuovi anche da parte di chi le formula. Qui il verbo fare ha l’oggetto nel pronome interrogativo, volutamente generico per evitare il paravento delle proprie presunte inettitudini, mancanze di tempo, difficoltà: c’è sempre qualcosa che ciascuno può fare. Già, che cosa facciamo? La domanda penetra nella coscienza e denuncia pigrizie, inerzie, sfoghi polemici senza ricadute operative: che cosa facciamo? In ambito strettamente personale la risposta può riguardare l’informazione e lo studio, a partire dalla Scrittura, e la preghiera – oltre le parole la disponibilità ad aggiornare giudizi e comportamenti –. In ambito piú specificamente ecclesiale, per chi lo frequenta, fare significa non tacere, esprimere i dissensi, non mugugni, accompagnati da proposte e dalla disponibilità alla partecipazione non solo in obbedienza, ma a condizioni concordate e con l’accesso ad ambiti decisionali.

Spazi piú grandi si aprono sia nelle celebrazioni liturgiche – preghiera dei fedeli, partecipazione all’omelia –, sia negli incontri culturali: non basta che ce la raccontiamo, né tanto meno che ci tiriamo fuori dai problemi soddisfatti da fiorite dissertazioni. Celebrazioni cultuali e dibattiti trovano motivazione nella necessità di appagamento di personali esigenze spirituali e intellettuali, perché la nostra non è la fede del carbonaio: ma ogni incontro sia in primo luogo l’occasione di collaudare un diverso modello di rapporto interpersonale all’interno e all’esterno. Non la quantità della preghiera o dello studio sono il segno distintivo, ma la gioia di provare ad amorizzare il mondo – il neologismo coniato da Arturo Paoli – dando vita a iniziative, attività, opere riconducibili a quella tua volontà che ogni giorno il cristiano prega sia fatta.

Ma interrogarsi su che cosa fare per crescere da donne e da uomini desiderosi di costruire una società meglio vivibile e pretendere di giudicare chi amministra la cosa pubblica dalle realizzazioni e non dagli annunci non è specifico del credente, bensí sostanza morale di ogni essere umano e dovere di ogni cittadino.