2020 marzo
Oggi, e lo ricordiamo spesso in queste pagine, il mondo ci presenta il conto di sfide inedite, come forse è sempre stato di generazione in generazione, anche se i rischi cambiano e diverso è l’ordine di grandezza degli argomenti in causa, ora diventati globali e sfuggenti alle nostre presunzioni di governo. Tra le crisi e i conflitti della scena internazionale, gli arroccamenti identitari, e l’egemonia di modelli economici indifferenti agli scarti di umanità, avanzano gli effetti delle tecnologie, sempre piú invasive, sempre piú dominanti sia nella nostra quotidianità sia nella gestione degli affari internazionali, dalle guerre dei droni alle speculazioni delle borse.
Se la tecnologia prima era solo un indicatore di progresso, ora, attraverso la creazione e l’evoluzione del web, la rete che ci portiamo in tasca con lo smartphone, ha a che fare con i concetti e le esperienze di amicizia e di relazione, con l’umore politico, le scelte degli acquisti e le reazioni agli eventi del mondo, sulla scia di influencer senza referenze di qualsivoglia competenza, se non quella del like virale o degli intenti manipolatori.
Le infrastrutture tecnologiche hanno, cioè, reso possibile uno spazio di esperienza che, in maniera fluida, si integra nella vita quotidiana, disegnando un nuovo contesto esistenziale ibrido, in parte reale e in parte digitale, in quanto identità, presenza, relazioni non stanno solo tra gli atomi concreti, ma anche nella immaterialità della rete. Il paradigma antropologico sta evolvendo, perché, come è sempre avvenuto nella sua storia, l’uomo, al maschile e al femminile, non rimane immutato dal modo in cui manipola il mondo. Eppure, anche cosí immerso nella connessione universale, non fa che esprimere i bisogni della sua natura: il desiderio di intrecciare rapporti, di comunicare e di allacciare amicizie; l’aspirazione a una pienezza e a una trascendenza che possa superare i limiti della sua condizione, tendendo verso l’infinito le opportunità di presenza, di relazione e di conoscenza e modellando la tecnologia secondo i suoi aneliti. Conoscere e farsi conoscere sono dati di fatto del desiderio umano, ma l’essere connessi non fa di per sé nascere la comprensione tra le persone o il desiderio di collaborare per il bene comune, come dimostrano il settarismo, la litigiosità e l’astiosità fino all’odio diffusi proprio dalla rete. Inoltre, se il concetto di prossimo e di amicizia cambiano e si evolvono proprio a ragione della rete, occorre tener presente che i social sono insieme aiuto e minaccia alla relazione: si rischia di coltivare gli amici nei social e di perdere le vere interazioni sociali; si può relazionarsi con qualcuno mai visto in capo al mondo e ignorare il vicino della porta accanto.
Tale contesto di vita condiziona largamente l’umanità nel suo insieme di credenti e non credenti e interroga i cristiani sul come gestire la specifica chiamata evangelica a essere sale di quella terra, che ora è anche questa. Non si tratta di pensare a un web inondato di post e messaggi dichiaratamente confessionali, ma di testimoniare un diverso approccio alla comunicazione e alla condivisione, nella rete allo stesso modo che nella vita. Dichiararsi cristiani significa dare testimonianza con l’azione di una conversione avvenuta nel profondo, ossia vivere in maniera coerente con i valori del vangelo, anche senza parlarne in modo esplicito, in quanto diventati modo di essere. E la testimonianza è ciò che conta nella rete, dove i contenuti sono generati dagli utenti nella logica partecipativa. In altre parole: se sono cristiano lo sono anche in rete, nei miei post, nei miei tweet e nel mio profilo digitale, chiedendomi chi è il mio prossimo negli incontri delle strade digitali, cercando di portare parole che ricuciono e visioni costruttive in uno spazio divenuto spesso piú reale del reale.