2022 ottobre
In queste settimane inquiete di valutazioni e ipotesi, di speranze e timori, mentre le nubi sul mondo non tendono a dissolversi, riflettere sulla vocazione dell’umanità e della persona potrebbe apparire un eccentrico diversivo. Il problema della vocazione sembrerebbe persino marginale, rispetto a quello antropologico e culturale dell’individuazione del senso della vita e dei valori che la fondano e la orientano. Anche fra chi non professa una fede, molti avvertono l’impegno a scelte esistenziali che nascono da particolari interessi, inclinazioni o desideri naturali.
Un incontro, una presenza, un avvenimento casuale, possono muovere a emulazione, sorpresa o scoperta di valori estetici (bellezza artistica), morali, sociali (relazioni civili). Nel segno vocazionale, possono rientrare sia l’eterna domanda «Che senso ha vivere?», sia l’urgenza di «agire, fare qualcosa», per trovare lo scopo di un impegno creativo e partecipativo. L’impulso a valorizzare le proprie qualità – i «talenti» della parabola – non è limitato a un’esperienza di fede cristiana, ma aperto a ogni vicenda antropologica e sociale, personale o comunitaria. Percepire una chiamata, individuarne le vie concrete e perseguirle, è curiosissima e impegnativa impresa, quasi preghiera e non necessariamente all’interno di una istituzione confessionale.
Nella storia di ciascuno, la vicenda si compone di risposte a domande successive, il bilancio delle quali è sempre rinviato, dalla morte, al futuro. Il cammino dipende da fattori individuali e collettivi; nasce da iniziali distinzioni genetiche – fisiche e culturali –, d’ambiente naturale, doti innate, inclinazioni caratteriali e coincidenze casuali. Fenomeno che incontra la dimensione piú prosaica del vivere quotidiano e provoca un dilemma fra le aspirazioni alte e profonde d’espressione totale e le attività remunerate per il sostentamento. Libertà, destino, caso e grazia (determinante per i fedeli d’una religione), ineriscono alla complessità del problema senza garantirne la soluzione. Cosí la libertà, non l’arbitrio, dà senso alla morale e orienta la giustizia. Ab origine, l’uomo sarebbe obbligato a seguire il bene per realizzare sé stesso e, secondo l’antropologia di Romano Guardini, troverebbe la sua dignità essenziale in infinite accezioni, spontanee o ricalcate su modelli mitici o storici.
Cosí la grazia costituisce il dono, oltre a quelli della natura e della civiltà, che alimenta il sentimento d’amore universale. Cosí il destino, non fatalità prescritta, ma ultimo fine, è la struttura esistenziale del «dovere essere», del «diventare quello che si è». Fusione di razionalità e fantasia, se può comprendere ogni creatività, dalle Arti alle Scienze e alle Tecniche piú evolute, la vocazione consisterebbe semplicemente nel riconoscere e adempiere il (proprio) destino. Nella drammaticità apocalittica dei segni dei tempi attuali, la risposta adeguata sarebbe la preparazione di «terre nuove e cieli nuovi», per dirla con la Bibbia. Presenza attiva, testimonianza e servizio nel compito, per tutti anche se forse irraggiungibile, di «essere nel mondo senza essere del mondo», «fratelli tutti», in un impegno di corale generosa lieta e umile utopia.
i Galli