2019 settembre
Emerge, fra le contraddizioni della nostra epoca, la figura dell’uomo moderno, difficile da identificare, salvo che per l’appartenenza temporale, ma meritevole persino di una certa deferenza. Cerchiamo quindi di scrutare se questa nostra generazione si differenzi rispetto a chi ci ha preceduto e se il cambiamento sia in meglio oppure soltanto dovuto all’incomparabile mole di conoscenze di cui disponiamo. Piero Angela, per esempio, mostrava, come uno studente liceale oggi disponga di una quantità di nozioni molto superiore a quelle di uno scienziato o di uno studioso di non molti decenni fa. Una posizione quasi privilegiata, quindi, da cui però, quando cogliamo ingenuità o storture dei nostri avi, ci si reputa ingenerosamente superiori rispetto a loro, senza tenere conto di quanto siamo debitori del passato e di come il cumulo, per quanto sterminato, di conoscenze non faccia sapienza, né garantisca un’umanità migliore. Le concezioni emerse nel passato sono evidentemente datate, talvolta inaccettabili, ma non possiamo dimostrare che, da medesime condizioni di partenza, la nostra mentalità avrebbe tratto esiti migliori.
Tendiamo quindi l’orecchio, tra il brusio o il frastuono odierno, alla voce del gallo, metafora della nostra coscienza critica: non denuncia gli errori di chi è venuto prima e avrebbe potuto far meglio, ma intende tenerci sull’avviso verso quanto attiene la nostra responsabilità nella costruzione di un nuovo umanesimo. Guardando al passato, occorre trarre innanzitutto l’insegnamento che i propri limiti – siano moderni o antichi, inamovibili caratteristiche dell’essere umano – sono insidiosi e sovente insospettati, palesandosi, purtroppo, solo nei loro esiti a volte tragici.
Come la evangelica trave nell’occhio, i propri limiti sono per molti versi ardui da vedere, ma intuiamo, per esempio, che, a differenza dell’antico scienziato con diretta esperienza di quanto sapeva, oggi coltiviamo un sapere sovente non legato a esperienza, rischiando una distanza dalla realtà che non aiuta a strutturarci per affrontarla. Se poi, allargando l’orizzonte dal campo scientifico verso altri versanti, qualche acuta acquisizione teorica indurrebbe vive speranze, nella realtà gli esiti pratici – nell’ambiente naturale, nella convivenza civile, nei rapporti umani –, mostrano uno scollamento da quelle premesse davvero sconfortante, per esempio nell’accesso alle cure o nella distribuzione delle ricchezze.
Dunque ancora siamo costretti a fare i conti con i nostri limiti, a confrontarci con un’inedita mole di sapere, consapevoli che la nostra statura non sta nella quantità, ma nel saperla vivere alla luce di ciò che questa enorme massa sembra aver inesorabilmente soffocato: l’assunto socratico di sapere di non sapere.
Il contributo dell’eredità giudaico-cristiana, da cui ci facciamo aiutare a discernere il mondo, insiste sul tema della povertà, da cui prevalentemente ricaviamo l’insegnamento solidaristico, e ci ammonisce a non trascurare i limiti senza però farsene paralizzare, a riconoscersi – in qualche modo anche noi – poveri nell’ineluttabilità di dover procedere talvolta senza certezze. Dobbiamo imparare, infine, a declinare i limiti come fulcro perché, con la ricchezza dell’enorme sapienza che abbiamo ereditato, e che dobbiamo continuare a coltivare, riusciamo a raggiungere in tutti i campi esiti gravidi di umanità.