Esiste uno spazio sacro?
di Giannino Piana
La desacralizzazione è stata, fin dall’inizio, uno dei connotati fondamentali del cristianesimo. In un mondo – quello pagano – costellato di divinità che occupavano gli spazi naturali e presiedevano alle diverse funzioni esercitate dall’uomo non fa meraviglia che i cristiani venissero considerati come atei. In continuità con la precedente tradizione ebraica essi adorano un Dio unico, che non esita ad affermare con forza la sua trascendenza. Come JHWH, il Dio di Israele, il quale nel momento in cui si fa alleato del popolo rivendica la sua infinita diversità e distanza, prescrivendo all’uomo di non farsi di lui immagine alcuna e persino di non chiamarlo per nome (Es 20, 4-6), anche il Dio di Gesú Cristo è geloso della sua radicale alterità.
Culto, tempio, legge
La fedeltà a questa alta concezione di Dio ha subíto nel corso della storia della salvezza, sia ebraica sia cristiana, gravi contraccolpi. La tentazione di catturare Dio, asservendolo al proprio potere e ai propri interessi, ha imboccato spesso la strada della sacralizzazione di alcune realtà che hanno a che fare con l’esperienza religiosa. Tra queste un ruolo particolarmente rilevante hanno avuto, nel mondo ebraico, il culto – si pensi alle invettive della predicazione profetica nei confronti del culto materiale – il tempio e, nell’ultima fase – quella del giudaismo – la legge, divenuta, dopo la distruzione del tempio, l’unico riferimento per la religiosità del popolo (cfr Salmo 119).
Nel Nuovo Testamento la tentazione di far coincidere automaticamente la salvezza con l’adesione all’una o all’altra di queste realtà, non riconoscendo che essa è dono di Dio e che la sua acquisizione può avvenire soltanto a condizione che si riconosca la propria povertà e si creino le condizioni interiori per la sua accoglienza, ha continuato a persistere. È questo il motivo principale della polemica di Gesú nei confronti degli scribi e dei farisei, che fanno dell’osservanza della legge lo strumento della propria autogiustificazione, la via attraverso la quale meritare – come ci ricorda la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14) – la salvezza.
Gesú reagisce per questo con forza ai tentativi di sacralizzare la legge, non destituendola del suo significato, ma portandola alla pienezza («Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento», Mt 5, 17) mediante la sua sottomissione al comandamento piú grande, quello dell’amore. Un’analoga posizione Egli assume nei confronti di altri simboli religiosi riguardanti – come scrive l’autore della lettera agli Ebrei – sacerdozio, sacrificio e vittima che non hanno piú senso di esistere perché identificati con la sua stessa persona (Ebr 4, 14-16; 5-10).
Continua sul Gallo stampato… e nel seguito:
- L’adorazione di Dio «in spirito e verità»
- L’esigenza di uno spazio che faciliti l’interiorizzazione
- Il santo e il sacro: due dimensioni della religiosità