Genovese di famiglia ebraica
di Erminia Murchio
Nel corso dell’elaborazione del mio Lele, mago di Genova (Il gallo, ottobre 2019), mi è stato suggerito un approfondimento sul rapporto fra l’arte di Emanuele Luzzati e la cultura ebraica di provenienza. (…)
La cultura ebraica
Chi ha conosciuto Lele Luzzati fin dall’infanzia o, comunque, in quanto appartenente alla comunità ebraica non ha dubbi sul legame profondo esistente fra la sua arte e la sua appartenenza originaria. Delia Sdraffa, cofondatrice del Centro Culturale Primo Levi di Genova (che il 16 dicembre 2020 festeggerà 30 anni), appartiene all’ormai piccola comunità ebraica genovese e a una delle famiglie salvatesi dalla deportazione perché la portiera del loro stabile li aveva avvisati ed erano riusciti a scappare in tempo. Mi ha aperto gentilmente e generosamente la porta della sua casa e dei suoi ricordi di bambina con fratelli piú grandi, amici di Lele. Tira fuori i libri, i biglietti di auguri di fine anno che l’artista era uso costruire e regalare agli amici con le sue filastrocche birichine, ironiche, lievi, scherzose e… di buon augurio: dei veri e propri teatrini in miniatura. Già i miei occhi correvano da un quadro all’altro, da una stampa all’altra, da una parete all’altra: un altro piccolo museo Luzzati. Mi soffermo su un libro: Haggadàh di Pesach – cioè il racconto, la narrazione del passaggio (esodo), per noi, estranei alla cultura ebraica, semplicemente il rito della Pasqua ebraica –, illustrato da Lele nel 1984. L’Haggadàh di Pesach costituisce la parte centrale della celebrazione pasquale ebraica e si legge in famiglia le due sere antecedenti la Pasqua, prima del seder (cena), anche questa rigorosamente rituale (tre azzime coperte, erba amara, zampino di agnello arrosto, uovo sodo, composta di frutta…). Delia conosceva bene la famiglia Luzzati e ne è rimasta amica nell’arco della vita ed è certa, anche se Lele non è mai stato praticante, che la sua arte è stata influenzata dal suo essere ebreo. «Basta guardare le sue opere, sono evidenti anche i nessi con altri artisti di origine ebraica, lo stesso Chagall. Ognuno con il proprio stile… e poi, lo stile di Lele è assolutamente riconoscibile e personalissimo!».
Viceversa, chi è stato accanto a Luzzati, magari anche per 40 anni, in quanto artista, uomo di teatro, illustratore, insomma nella poliedricità del suo lavoro, o non ritiene importante questo aspetto o, addirittura, lo considera fuorviante.
Danièle Sulewic è stata collaboratrice di Luzzati fin dagli anni ’70, prevalentemente come costumista. Lo considera «un maestro, non solo dal punto di vista artistico, ma anche, e soprattutto, un maestro di vita, per i suoi saperi, per la sua profonda cultura, per la sua grande saggezza. La sua umanità è la sua parte artistica piú riuscita: io ho un debito di riconoscenza nei suoi confronti… questo tempo glielo devo». Una sorta di restituzione a un maestro che si è dimostrato sempre generoso e corretto, molto corretto, come quando aveva preteso dal Teatro della Tosse che, nel manifesto e programma di uno spettacolo del 1978, accanto al nome della già famosa Santuzza Calí, per i costumi risultassero anche Bruno Cereseto e Danièle Sulewic, perché in quel caso erano davvero opera loro.
Danièle, invece, non ritiene l’ebraicità una prospettiva opportuna per studiare l’arte di Luzzati. Prima di tutto, per rispetto a Lele, perché non amava parlare di ciò. Infatti affermava: «Sono ebreo perché sono nato ebreo, cosí come sono nato in Italia e a Genova». Tutto qui, non c’è nient’altro da dire.
Continua sul Gallo stampato… e nel seguito:
- L’arte del collage
- La curiosità dell’artigiano