Gente che par quasi di conoscere

di Manuela Poggiato

Vocazione di san Matteo

L’ultima volta ho visto questo grande olio di Caravaggio dal vivo qualche anno fa a Roma all’uscita da una mostra su Frida Kahlo. La chiesa, San Luigi dei Francesi, in cui è conservato con altri due teleri sempre riguardanti il santo, era stracolma, il tempo poco, la luce scarsa. E ancora una volta non ero riuscita a capire bene chi fosse, dei chiamati dal Signore, Matteo.
La storia è nota. È il 1600 quando il prelato francese Mathieu Cointrel, italianizzato in Contarelli, commissiona a Caravaggio una serie di olii per raccontare la storia del santo suo eponimo e rappresentarlo in san Luigi dei Francesi, la chiesa nazionale di Francia a Roma. E Caravaggio ne dipinge tre: La vocazione, San Matteo e l’angelo – il mio preferito – e Il martirio di san Matteo, lavorando come sa. I personaggi sono realistici: avventori di una bettolaccia romana della fine del ’500 come quella che avrebbe potuto frequentare ai suoi tempi il pubblicano Matteo, un collaborazionista, un servitore dell’impero di Roma che in Giudea riscuoteva le tasse.

Stava all’ultimo posto nella considerazione morale di un ebreo del primo secolo della nostra era. Il suo statuto era quello dell’infamia (Antonio Paolucci, Caravaggio e il Matteo di ogni giorno, in Luoghi dell’Infinito, gennaio 2019).

Nel quadro, da una porta a destra, entra Gesú e con lui la luce a illuminare un tavolo intorno al quale siedono cinque avventori in abiti del ’500. La mano di Gesú si allunga verso di loro e, con il dito proteso, chiama qualcuno. Chi? Me lo sono sempre chiesto, come se lo chiede anche l’anziano barbuto che siede al tavolo proprio di fronte a chi osserva il quadro. L’uomo si punta l’indice al petto ed è come se noi sentissimo la sua voce dire: «Chi? Io?» E infatti io ho sempre pensato che Matteo, il chiamato dal luminoso dito del Signore, fosse proprio lui. Invece l’articolo dello storico dell’arte Antonio Paolucci mi apre gli occhi. Il destinatario della vocazione è un altro, lo si vede poco, ma c’è ed è lí nel buio del nero tipico di Caravaggio che, chino sul tavolo all’estrema sinistra del quadro, quasi ignaro di ciò che si svolge intorno a lui, conta i soldi, i soldi delle tasse portate via agli ebrei di Giudea per consegnarli all’occupante impero di Roma, salvo trattenute.
E ovviamente Gesú chiama l’ultimo, il paria, l’odiato. Che, ovviamente, come racconta il Vangelo, risponderà alla grande.
Se la chiamata fosse stata rivolta a me, se intorno a quel tavolo ci fossi stata io, avrei alzato gli occhi, capito, risposto? Lasciare cose note per l’ignoto, una vita agiata per l’incertezza, chiamata da uno che non si sa chi sia né da dove viene e che per giunta si proclama re dei Giudei? Non so. Mi consola il fatto che da tempo ho la sensazione che è Gesú che quando chiama ti strappa dalla sedia quasi senza tenere conto della tua volontà. Di quanti conosco che sono stati chiamati so che tutti hanno provato in qualche modo a resistere, a dedicarsi ad altro come nulla fosse accaduto, a non porre orecchio, ma sempre senza successo perché, prima o poi, sono stati loro, in qualche modo costretti, a rispondere a quel dito, a essere illuminati da quella luce.

Deposizione nel sepolcro

Un altro dei quadri di Caravaggio piú cari a me è Deposizione nel sepolcro, un olio su tela dipinto fra il 1602 e il 1603 per la cappella della Chiesa Nuova degli Oratoriani a Roma e ora conservato nei Musei Vaticani. Ho rivisto recentemente l’opera nel bel numero di marzo di Luoghi dell’Infinito all’interno di un lungo articolo dedicato a cinque momenti progressivi della passione di Gesú vista attraverso gli occhi di altrettanti pittori italiani. Bellini: Preghiera nell’orto; Giotto: Bacio di Giuda; Piero della Francesca: Flagellazione di Cristo; Antonio Ciseri: Ecce homo e, infine, appunto la Deposizione di Caravaggio.
Dall’autore dell’articolo, Antonio Paolucci, scopro che in realtà il quadro non rappresenta una deposizione, ma l’unzione di un cadavere che, come si verificava in molte civiltà, prima di essere sepolto veniva ben lavato, unto, profumato. Su tutto, in quest’opera, mi ha sempre colpito la sensazione del peso del corpo di Gesú che il quadro esprime. È un corpo umano, un corpo pesante che Nicodemo fatica a sollevare e quasi lo comunica a noi spettatori guardandoci con quei suoi occhi cupi, profondi, dolenti. È un corpo pesante e umano con masse muscolari evidenti, vene ritorte e dita cianotiche tipiche del post mortem. È un peso che tutto il gruppo porta con fatica fisica e che, secondo me, si esprime nella curva che i personaggi formano a partire dalla destra del quadro, con Maria di Cleofa poi con la Maddalena per passare a Giovanni e finire con il corpo di Cristo. È un peso silenzioso, quello del dolore dato dalla morte di quest’uomo, che si esprime piú con i gesti che con le parole: l’asciugarsi le lacrime a capo chino della bellissima Maddalena dai fulvi capelli, l’alzare le braccia in alto di Maria di Cleofa. Gesti sgomenti, a voler dire qualcosa perché dalle labbra socchiuse non riesce a uscire neppure un grido. Nel gruppo, che porta nel fisico e nell’anima quel peso, potremmo esserci noi, costretti a prendere coscienza della morte di una persona tanto amata.
È il modo di dipingere tipico di Caravaggio, che in questa come in altre opere, usa i volti del popolo: donne, uomini, contadini, prostitute, bambini abitanti nella Roma di quel tempo. Ed è per questo che molti dei suoi quadri, di solito commissionati come pale d’altare, furono rifiutati perché non graditi dai committenti.
È famoso il caso del «primo» San Matteo e l’angelo rifiutato per la volgarità della posa del santo che Caravaggio raffigura senza aureola e vestito come un contadino analfabeta a cui l’angelo deve tenere la mano per aiutarlo a scrivere qualcosa, mentre in vita era un gabelliere certamente in grado di leggere, scrivere, far di conto. E guardando i volti dei personaggi di questi quadri non si può non dar ragione a Roberto Longhi, scopritore di Caravaggio dopo anni di oblio: «Gente che par quasi di conoscere…», silenzi, lamentazioni, dolore che par quasi di sentire nel nostro corpo, nella nostra anima.