Il borgo di Tivegna
di Dario Beruto
«Un borgo anche il più sperduto, si propone da sé; lo studioso ne ricerca le tracce per scoprirne i segreti: l’archeologia, l’epoca delle costruzioni, i toponimi, la lingua, i modi di dire, usi e tradizioni, la cultura del popolo, il confronto delle date con la storia universale, i documenti d’archivio».
Così inizia don Angelo Carabelli, prete da 50 anni, che ha svolto il suo ministero in diverse parrocchie della antica diocesi di Luni-Sarzana, oggi La Spezia-Sarzana-Brugnato, nella presentazione del suo libro: Tivegna: Il suo castello, le sue chiese, la sua gente (ed. Biblioteca Niccolò V, Sarzana 2013).
Carabelli è un appassionato di storia locale, per lui Tivegna non è un borgo qualunque, ma il suo paese natale, ove i Carabelli erano tra i preminenti casati della zona a partire dal XVI secolo, insieme ai Conturla, ai Battolla, ai Mazzi, ai Carletti, ai Maccione, ai Borgo, ai Ratti (cap V, p 69).
Dunque una passione a cui l’autore desidera fornire una «base storica» che gli permetta di «ritornare alla sua Itaca», più consapevole della tradizione dei suoi antenati, che nel Cinquecento, in base allo statuto che li governava, erano usi al suono di una campana e al grido del nunzio a riunirsi in Generale Parlamento sulla Aia della corte, per risolvere le controversie in presenza di un Notaio, «a perpetua memoria, perché non venga meno la verità, ma piuttosto emerga» (cap 5, p 75).
Meritava un po’ d’attenzione un paese più che millenario (è citato la prima volta in un decreto di Ottone I del 963) della Bassa Val di Vara che, dalla finestra dei suoi 360 metri s.l.m., contempla la Valle del Magra fino alla Versilia e alla torre di Pisa. Forse di origini etrusche o romane, nei secoli è stato oggetto di conquista da parte dei vescovi di Luni, degli Obertenghi, dei Fieschi, dei Visconti e degli Sforza, finché, sotto l’alto patronato della Serenissima, ha potuto gestirsi con proprio statuto sino all’avvento della Repubblica Ligure (1797).
Carabelli è molto attento a non confondere la tensione verso la giustizia che la sua gente ha nei confronti delle controversie che nascevano al suo interno e con i vicini, con il desiderio di costoro di avere ragione a ogni costo. Questa attenzione permette all’autore di inquadrare la storia del borgo non come sistema chiuso, ma come sistema aperto, in continua evoluzione, con comunità vicine e lontane, nel fluire delle storie particolari e di quelle generali. Il risultato è un affresco che attiene a un periodo che va dalla Protostoria alla Storia (cap 1), passando dal Trecento (cap 2), al Quattrocento (cap 3), alla Storia del Borgo attraverso gli Statuti Civili (cap 5), al Seicento, al Settecento, all’Ottocento (cap 6, 7, 8), alla Storia del Borgo attraverso le visite pastorali (cap 9), alla Chiesa parrocchiale e i parroci (cap 10), agli Oratori (cap 11), alle Confraternite (cap 12), alla Corte di Giustizia (cap 13), alla Anagrafe (cap 14) e che si conclude con una analisi Tra passato e Presente (cap 15).
Un lavoro davvero ponderoso che il Carabelli ha affrontato e svolto con la pazienza del certosino, consultando le carte di archivio, traducendole dal latino «senza cedere alla aridità delle formule e dei numeri». Sue fonti sono state l’archivio diocesano, l’archivio parrocchiale di Tivegna, i registri anagrafici, i registri delle confraternite e della fabbriceria, e una parte notevole dell’archivio comunale finito provvidenzialmente in chiesa. In questa enorme quantità di dati, egli, con intuito e ragione, ha cercato di «leggere l’unità armonica, nel singolo e nella comunità, tra vita religiosa e vita civile, tra coscienza e legge, tra ragione e fede, in un tempo in cui i difetti e i peccati, che non mancavano, erano riconosciuti come tali» (pag 5).
Un obiettivo vasto che dice qualcosa anche a lettori digiuni, ma interessati a tali ricerche, come il sottoscritto. Carabelli, dallo studio sul passato, fornisce elementi anche per una riflessione sull’oggi.
Per me è stato interessante leggere l’ampia documentazione fornita dall’Autore sul senso di responsabilità, che le cariche di Governo dovevano avere per gestire un territorio, definito dalla Repubblica di Genova con il titolo onorifico di Magnifica Comunità. Certamente questo lodevole tratto comportamentale era una imposizione della Repubblica di Genova, che era molto attenta a non perdere le tasse e i contributi della periferia, ma i dati di archivio trovati da Carabelli, suggeriscono che questo comportamento era accettato e condiviso dalla maggior parte della gente di Tivegna.
Come si evince dallo Statuto del 1494 (allegato n. 1), gli amministratori (il Console e i Consiglieri, coadiuvati da due Soprastanti, due Terminatori, un Sindaco, due Massari della Chiesa e due Massari dell’Hospitalis) duravano in carica sei mesi. Al termine del mandato, ogni pendenza in denaro doveva essere ripianata, sotto pena di pagare di tasca propria il debito di eventuali inadempienti (pag 60).
Penso a che cosa implicherebbe questo comportamento ai nostri giorni, se, per esempio, chi con molta leggerezza stacca multe su multe per il traffico dovesse provvedere di tasca propria al loro mancato pagamento!
Ma per la maggior parte della gente di Tivegna il pagar di tasca propria, quando l’obiettivo non è raggiunto, è diventato un tratto dominante del comportamento che dovrebbe avere chi ha l’onore e l’onere di gestire il bene di tutti e di ognuno.
Dal 1494 ai giorni nostri, nella vita civile e religiosa di questo territorio figurano, come in un ideale continuum, i nomi dei casati che hanno caratterizzato gli albori della Magnifica Comunità.
Gio Batta Carletti (Notaro), Ottorino Carletti (Chimico), Cesare Mazzi (Ingegnere), Alfredo Mazzi (Generale), Aldo Mazzi (direttore della Cassa Depositi e Prestiti), Umberto Carabelli (Sindaco del Comune di Follo), Alceste Battolla (Console della Compagnia del Porto della Spezia), mons. Venerio Mazzi (funzionario alla Segreteria di Stato del Vaticano), sono tivegnini che hanno avuto un ruolo significativo nella Spezia recente, come i loro casati lo hanno avuto nel 1494.
Il desiderio di don Angelo Carabelli di rendere un servizio al Paese che gli ha dato i natali, per un lettore, digiuno di storie locali, mi sembra che sia stato raggiunto, così come il ritorno alla sua Itaca, almeno fino a quando «Qualcuno non lo chiamerà a concludere la terrena Odissea per farlo approdare all’unica Isola Felice».