Inni a Dio per la patria

di Silviano Fiorato

Un Dio al servizio della nostra patria: questo desiderio cominciò probabilmente quando la patria aveva le piccole dimensioni di alcune grotte al bordo di una foresta, e si sentí il bisogno di protezione divina per difendersi dalle altre tribú e anche per vincerne la concorrenza territoriale.
Onde esprimere meglio questo desiderio, si decise già allora di farne un canto, affinché la voce potesse salire fino al cielo; e poiché l’unione delle voci ne potenzia l’effetto sonoro, il canto diventò un inno corale di richiesta di aiuto non solo per essere protetti dal nemico, ma anche – perché no? – per avere tanta forza da sterminarlo. Questa realtà è documentata da testimonianze storiche, scritte in epoche antelucane; tempi biblici, si dirà. Ed è proprio il termine appropriato.
Per quanto da allora l’Umanità sia indubbiamente cresciuta (ma forse solo per numero dei componenti?), questo desiderio non si è per nulla estinto, nella fideistica certezza di un Dio che sta seduto tra le nuvole pronto a esaudirlo, salvo che proprio non scrolli la testa per qualche improbabile dissenso. Cosí oggi ogni nazione si vanta di avere un canto propiziatore, ovviamente nella propria lingua, nella speranza che un Dio multilingue sia in grado di capirla senza interpreti. Per soddisfare questa esigenza, molti paesi del mondo hanno creato da secoli un loro inno nazionale, da cantare in coro possibilmente tra centinaia di bandiere portate da soldati in assetto di combattimento; o anche da cantare piú semplicemente per una vittoria sul podio delle Olimpiadi.
Naturalmente non sono soltanto gli italiani a godere di questa consuetudine, con il nostro Inno di Mameli che proprio lo scorso 15 novembre è diventato inno nazionale d’Italia per legge, dopo settantun anni in cui lo è stato a titolo provvisorio. Anche i cittadini degli Stati Uniti hanno il loro canto, La bandiera stellata, e i francesi la famosissima Marsigliese; gli inglesi invece si accontentano di un Dio salvi la Regina; e anche lo Stato Vaticano, buon ultimo, ha, dal 1949, il suo inno, Oh Roma felice!, con il testo ufficiale in latino.
È interessante sforbiciare qua e là qualche verso di questi inni nazionali che facciamo salire al cielo. Partendo dai Fratelli d’Italia scritto dal patriota poeta Goffredo Mameli nel 1847 – dovremmo commemorarne il centosettantesimo! – abbiamo imparato fin da bambini che l’Italia «dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa» in attesa che «la vittoria le porga la chioma», dal momento che «schiava di Roma Iddio la creò». Solo dopo succederà, ottenuta la vittoria, che «l’unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del Signore»; e, infine, «uniti per Dio chi vincer ci può?», domanda ovviamente retorica.
I nostri vicini francesi, nella Marsigliese, si accontentano di segnalare a Dio quanto sarebbe pericoloso essere soggiogati dai «feroci soldati» delle «coorti straniere» che «abbatterebbero i nostri fieri guerrieri! Gran Dio! Con mani incatenate le nostre fronti verrebbero piegate»; sperando forse che Dio possa ripetere contro gli aggressori lo sterminio dell’esercito egiziano che inseguiva il popolo ebraico fuggitivo.
Gli inglesi, invece, chiedono innanzitutto di salvare la regina, ovviamente dopo aver disperso i nemici: «Dio salvi la nostra graziosa sovrana / Dio salvi la Regina… O Signore Dio nostro, sorgi / disperdi i nostri nemici / confondi la loro politica, / su Te confidiamo».
Invece lo Stato Vaticano, avendo ben compreso che Dio è contro ogni violenza e in tale senso ha delegato la sua autorità al Sommo Pontefice, si rallegra solamente della fortuna di Roma per essere stata scelta da Dio come Caput Mundi: «Oh Roma felice! / Oh Roma nobile! / Sei sede di Pietro /… / a cui sono state date le chiavi del Regno dei cieli. / … / Pontefice, Tu sei il vicario di Cristo sulla terra. / … / in te il potere. / Tu Pontefice sei pietra immobile, e sopra questa pietra è stata edificata la Chiesa di Dio. / Oh Roma felice. / Oh Roma nobile». È un inno a Roma e al Pontefice, piú che a Dio, che intanto è di casa.