Invece la costituzione

di Ugo Basso

All’avvio di un’esperienza politica con la presunzione di cambiare la storia – il verbo cambiare non è da temere, ma è necessario mantenere la guardia sull’ambiguità – vorrei ancora una volta ragionare sulla costituzione. Lo faccio con la consapevolezza di parlare di una carta ignorata da chi dovrebbe istituzionalmente applicarla e da chi dalla sua applicazione trarrebbe vantaggi civili. Qualche volta ci chiederemo perché da tempo sia poco condivisa: ora mi limito a prendere atto che la carta fondamentale è sentita quasi esclusivamente come impaccio, come un vincolo da cui liberarsi anche attraverso interpretazioni capziose e forzate: perché, ci fanno credere, cosí saremmo piú spediti nel fare il bene del paese, nell’appagare le attese dei cittadini. Il 4 dicembre 2016 questo spirito ha ispirato la grande riforma che avrebbe riscritto una consistente parte del testo costituzionale, clamorosamente respinta dai cittadini, non so con quanta consapevolezza e per quali reali fini. Da allora non si è piú parlato di riforma costituzionale, e si è continuato a disattenderla.
Vorrei provare a considerare la costituzione in positivo, ispirazione e guida alla organizzazione politica del paese. Vediamo, per stare nell’attualità, la formazione del governo all’inizio di una legislatura, cioè dopo le elezioni. Deputati e senatori di una repubblica che pone al centro della struttura politica il parlamento vengono eletti all’interno di liste ideologicamente omogenee – di fatto i partiti – e rappresentano i propri elettori senza vincolo di mandato. Non sono quindi tenuti all’obbedienza verso un partito, piuttosto a dare conto agli elettori. La costituzione prevede voti per programmi e idee, non per capi popolo, come è avvenuto in tutte le ultime elezioni: pensiamo alle campagne in cui le immagini e gli slogan sono su nomi che addirittura entrano nei simboli anche quando non sono candidati. La scelta si sposta quindi dalle idee ai carismi personali spesso alimentati da qualità che poco hanno a che vedere con i programmi e le competenze di governo e si disincentiva l’impegno all’informazione, al ragionare politico e al dibattito perché ci sarà chi ci pensa. La costituzione immagina candidati, e quindi eletti, politicamente preparati, espressione di dibattiti fra gli elettori, soprattutto disponibili all’impegno che il ruolo comporta e per il quale percepiscono una indennità, da loro stessi aumentata nel tempo come retribuzione e come privilegi aggiunti.
Il presidente della repubblica nomina il capo del governo: per consuetudine, prima di procedere alla nomina, consulta personaggi dai quali, a diverso titolo, ritiene possano venire indicazioni utili a individuare chi potrebbe essere in grado di formare un governo che ottenga la fiducia del parlamento. La costituzione attribuisce alla responsabilità del capo dello stato questa designazione, formulata dopo valutazioni di qualità e competenze, che non può essere imposta dai partiti, né dagli elettori, neppure qualora nelle elezioni ci fosse una forza politica con la maggioranza assoluta. Nella complessità dei problemi il capo dello stato deve avere la libertà di scegliere in modo ampio fra parlamentari e non parlamentari, naturalmente in coerenza con gli esiti elettorali. La garanzia del consenso popolare sul programma e sulla lista dei ministri è nel voto di fiducia espresso dal parlamento con argomentazioni pubbliche e non sull’onda emotiva con sapore piú di tifo sportivo che di preoccupazioni per il paese. Si tratta di una logica diversa da quella per cui i partiti sottopongono agli elettori un candidato premier: peraltro in Italia neppure esiste il ruolo di premier, ma un capo del governo o presidente del consiglio. E neppure è prevista la scelta del capo del governo da parte dei partiti dopo le elezioni. La scelta dei ministri è affidata al presidente incaricato di formare il governo, dopo l’accettazione dell’incarico, proprio perché dovrebbe essere fatta secondo competenze e non per imposizioni dei partiti secondo logiche interne di potere.
La costituzione non indica un sistema elettorale, definito quindi da apposita legge, ma è nello spirito del proporzionale che permette una rappresentanza piú equilibrata, anche se può rendere meno facile la formazione di maggioranze. Peraltro è facile osservare come negli ultimi decenni il nostro parlamento sia stato eletto con leggi elettorali, dichiarate dalla corte costituzionale anticostituzionali, sostanzialmente maggioritarie. Hanno generato alcuni fra i governi peggiori della storia repubblicana, con maggioranze parlamentari ben diverse da quelle presenti nel paese e non hanno impedito che, per inconfessabili interessi personali, decine e decine di parlamentari abbiano cambiato il gruppo di appartenenza, anche determinando crisi di governo.
Aggiungo ancora, e anche questo è dimostrato dall’esperienza recente, che un governo alla cui verifica si possa andare solo a legislatura conclusa gode della possibilità di una progettazione di piú lungo respiro, ma allontana dall’interesse per la politica e favorisce quella che si chiama la dittatura della maggioranza. La costituzione tutela i cittadini, tutti, con regole per tutti, limiti e bilanciamento dei poteri, anche qualora, forse soprattutto, una sola forza politica disponesse della maggioranza assoluta. Mi spiego ed è la situazione presente: la maggioranza espressa dalle elezioni ha il compito di governare, ma tutti i cittadini, in numero ben piú grande della maggioranza elettorale, devono avere la certezza, garantita dal capo dello stato, di quali sono i compiti del governo e del suo capo, non modificabili da organi di partito. Garanzie irrinunciabili per uno stato di diritto.
Purtroppo tutto quello che è umano è corruttibile e forse davvero la democrazia è un sistema di governo per angeli e non per uomini, ma lo spirito della costituzione, anche in molti altri aspetti, continua a convincermi: occorre però che sostenga tutta l’azione politica, sia conosciuto, condiviso e sostenuto senza inganni e sotterfugi.
Chiudo con una citazione dalle conclusioni della sessione primaverile del consiglio permanente della Conferenza episcopale, proprio a pochi giorni dalle elezioni (19-21 marzo) formulate dal presidente cardinale Gualtiero Bassetti:

C’è una società da pacificare.
C’è una speranza da ricostruire.
C’è un paese da ricucire.
[…] I segni di primavera fioriscono ancora in una Carta costituzionale bella e cara, con i suoi valori di lavoro, famiglia, giustizia, solidarietà, rispetto, educazione, merito. Con il valore essenziale della pace: in casa nostra come in Europa, dove l’Europa – con le sue istituzioni – rimane orizzonte da riscoprire proprio per poter abitare davvero la casa.

Sarà condiviso almeno dai vescovi? Se ne parlerà nelle chiese?