La Parola nell’anno
Domenica di Pasqua A
NEL MISTERO DELLA RESURREZIONE
Atti 10, 34. 37-43; Colossesi 3, 1-4; Matteo 28, 1-11
di Antonio Gentili
La Pasqua cristiana – c’è infatti anche una contemporanea Pasqua ebraica, che tuttora commemora la liberazione del popolo di Israele dalla schiavitú in Egitto – rappresenta una nuova manifestazione divina, una nuova teofania. E come la rivelazione del Sinai trasmessa a Mosè faceva riferimento a un Nome, a un essere divino operatore di liberazione e di salvezza, cosí dal nuovo Sinai che è il Golgota, il Dio-fattocarne acquisisce, attraverso la vittoria sulla morte, «l’ultimo nemico a essere annientato» (1 Cor 15, 26), il nome di Signore (Fil 2, 9) e Salvatore. «Non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4, 12. Il carattere salvifico del nome di Yeshua/Gesú [Salvatore] è richiamato una dozzina di volte negli Atti degli Apostoli, dove è racchiusa la prima predicazione cristiana).
Come la rivelazione del Sinai aveva inaugurato l’alleanza di IHWH con il popolo di Israele, alleanza peraltro «mai revocata » (Giovanni Paolo II, Magonza, 17 novembre 1980), cosí la risurrezione di «Gesú il Nazareno, il re dei Giudei» (Gv 19, 19) offre all’umanità quella «nuova ed eterna alleanza » che è la Pasqua cristiana e che celebriamo nel giorno del Signore: ogni domenica – anche se spesso lo si dimentica! – è Pasqua!
L’evento della risurrezione del Nazareno inserisce i suoi discepoli nello stesso processo di risurrezione del Maestro. Scrivendo la Lettera ai Colossesi, san Paolo parla dei cristiani come dei «con-risorti» con Cristo (Col 3, 1), quindi già in possesso della cittadinanza celeste (Fil 3, 20). È quindi attraverso tante parziali risurrezioni – come ci insegnano i Padri – che noi approderemo alla risurrezione finale. In questo processo si rivela operante la presenza di Cristo in noi e la concomitante effusione del suo Spirito, in virtú del quale Gesú risultò vittorioso sulla morte (Rm 1, 4. Cf Gv 16, 8-10). È sempre lo stesso san Paolo a ricordarci che l’evento, il mistero della salvezza si risolve nel «Cristo in voi» (Col 1, 27). Ed è a questo che ci conduce la celebrazione eucaristica, che ha nella comunione la sua profonda ragion d’essere. Qui sta il motivo per cui il Terzo precetto della Chiesa sollecita il cristiano a «ricevere umilmente il suo Creatore almeno a Pasqua» (Catechismo della Chiesa cattolica, 2042. Cf 1389).
Alla stessa stregua dell’antica Pasqua del popolo ebraico, la nuova Pasqua del popolo cristiano è costituita da un evento storico, che ci è stato tramandato dai Vangeli. Nell’anno liturgico A – che è quello che stiamo celebrando – la parola è dell’evangelista Matteo. Questi ci descrive un evento in cui si intrecciano dati che potremmo definire di indole soprannaturale (l’inatteso terremoto; l’apparizione degli angeli) e dati di ordine umano: lo spavento delle guardie e il timore delle donne, subito trasformatosi in «gioia grande» (Mt 28, 8) per l’annuncio di cui si fanno messaggere. Un annuncio avvalorato, nel contempo, da una prima apparizione del Risorto, che andò loro incontro: «Gli si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono». È con queste disposizioni interiori che anche noi oggi vogliamo incontrare il Signore nel segno/sacramento che ci ha lasciato, quando lo riceveremo alla Comunione: per trattenerlo e nel contempo per annunciarlo. Sia questa la nostra Pasqua!
III domenica di Pasqua A
RICONOSCERE IL SIGNORE SULLE STRADE
Luca 24, 13-35
di Luisa Riva
Sento molto vicini i due discepoli che camminano verso Emmaus. Sono detti discepoli, dunque avevano conosciuto e seguito Gesú, non solo ne avevano sentito parlare. Condividevano perciò un’esperienza importante e, trovandosi insieme in viaggio, come capita a noi con gli amici, parlano di ciò che hanno appena vissuto. Con gli amici ci si confida, si condividono speranze e delusioni, con loro si può parlare di ciò che ci è caro e spesso pochi possono capirlo.
«Conversano e discutono», il confronto perciò è animato, probabilmente condividono lo smarrimento seguito alla morte di Gesú, ma ciascuno ha il suo punto di vista di fronte a una fine ingloriosa e umiliante, sovrastata e sigillata dal silenzio definitivo della morte. Quando hanno incontrato Gesú «i loro occhi erano impediti a riconoscerlo». Quante volte anche il nostro cammino di fede vive la difficoltà del riconoscimento? Abbiamo conosciuto Gesú, lo abbiamo seguito, ma poi ci sono i momenti di incertezza e di buio. Difficile conservare la speranza quando qualcosa dentro o fuori di noi frana.
«Noi speravamo che fosse colui che avrebbe liberato Israele». Colui, dunque, che era in grado di rispondere al desiderio piú profondo di ogni uomo e donna: la libertà, ciò che permette alla vita stessa di ciascuno di esprimersi. Noi sappiamo che la fede in Lui è la strada alla libertà e alla vita, ma è una strada piú difficile di quanto avessimo pensato. Difficile leggere i segni della liberazione nella nostra vita spesso bloccata nella ripetizione di errori, frenata dalle paure, tradita nelle aspettative; difficile leggere i segni della liberazione nelle nostre società attraversate da inquietudini, conniventi con l’ingiustizia, devastate dalle guerre. Anche se qualcuno vicino a noi ci ricorda che dobbiamo continuare a cercare, come le donne che hanno testimoniato di aver visto la tomba vuota e sentito gli angeli annunciare che «egli è vivo», in alcuni momenti ci sembra di non avere piú energie per cercare e sperare. Le nostre giornate sono un lungo tramonto.
I discepoli al tramonto hanno chiesto a Gesú di fermarsi con loro. Per la strada Gesú aveva già spiegato loro le Scritture, però le sue parole non erano bastate a farne comprendere il senso. Ma quando Gesú «prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, allora si aprirono gli occhi e lo riconobbero». È il gesto quotidiano della condivisione, della fraternità umana, ma è anche il segno della condivisione e del dono della vita di Gesú per noi, il Figlio di Dio, quel Dio che si è fatto carne, capovolgendo cosí qualsiasi immagine precedente di Dio.
È il gesto scelto da lui perché la sua presenza viva nelle nostre comunità, rinnovi e alimenti in ciascuno di noi la speranza. È il segno dell’amore totale, ed è l’esperienza dell’amore che ci permette il riconoscimento di Gesú. Anche le parole piú belle talvolta non ci raggiungono, ma quando nelle nostre vite facciamo l’esperienza dell’amore fatto di condivisione, ascolto, dono riconosciamo che lí c’è la novità che salva le nostre vite e il mondo. Capiamo perché «ardeva in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture».
Il gesto di spezzare il pane è la cifra del riconoscimento, è ciò che ci unisce a Cristo e ai fratelli nella condivisione delle fatiche della vita. Dopo questo, i discepoli di Emmaus «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme ». Lí trovarono gli apostoli che dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». I due discepoli raccontarono del loro incontro e tutti insieme si ritrovarono forse con un nuovo sgomento: quello della nuova vita del Risorto, la sconfitta della morte, un dono che andava ben oltre la loro speranza. Un dono che illumina e sfida anche la nostra fede oggi.
Vorrei concludere con una preghiera: Signore, che anche noi sappiamo partire senza indugio e testimoniare che ti abbiamo incontrato vivo sulle nostre strade.