La parola nell’anno – dicembre

III domenica di Avvento B
FASCINO NON DEVOZIONE (Giovanni 1, 6-8; 19-28)
di Mauro Felizietti

Nella liturgia dell’avvento Giovanni Battista è una figura di primo piano in ordine all’annuncio dell’imminente venuta del Messia. Giovanni, figlio del sacerdote Zaccaria, funzionario del tempio di Gerusalemme, non intende seguire le orme del padre, ma si ritira in zone desertiche, conducendo una vita eremitica e laica attirando successivamente accanto a sé numerosi discepoli. L’accorrere delle folle ad ascoltare questo strano personaggio e a farsi battezzare da lui nel Giordano aveva destato preoccupazione nei detentori del potere religioso. Agli inquisitori inviati dai Giudei egli risponde in modo piuttosto inconsueto, ponendo in evidenza chi non è: io non sono il Cristo, io non sono Elia, io non sono il profeta. E i primi due versetti presi dal prologo del vangelo di Giovanni ribadiscono: «Non era lui la luce».
Ma allora chi è? Mandato da Dio, testimone della luce, voce che grida, uno che battezza con acqua. Il testimone è colui che è chiamato a far risplendere una luce altra, donata, non la propria. Si deve diffidare di quanti si credono e si presentano come illuminati, abili nel creare dipendenza da sé. Giovanni si definisce voce, attraverso cui la Parola può esprimersi: la sua missione è a servizio della Parola. Il Battista, spostandosi dal centro della scena, indica un altro che è Luce, che è Parola, che battezza nello Spirito Santo. E mentre dichiara: «Io non sono», provoca gli inviati: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete».
È un atto di accusa che Giovanni muove ai suoi interlocutori, esperti di cavilli religiosi, ma ciechi davanti alla novità di Dio nella storia, perché chiusi nelle loro certezze teologiche. Ma è anche una evidente provocazione rivolta a quanti si dicono cristiani, ma non si lasciano né attrarre né conquistare da Cristo; piú esperti di pratiche devozionali e di immaginette che non della conoscenza del Vangelo: si può parlare non a caso di cristiani senza Cristo, anche se si dichiarano difensori di Dio, Patria e Famiglia…
L’incontro con Cristo ha stravolto la vita di Paolo, per il quale l’unica cosa che vale è «la sublimità della conoscenza di Cristo, mio Signore» (Fil 3, 8). La conoscenza è per lui unione intima e profonda, benevolenza, affetto, e condivisione, che coinvolge la persona in tutte le sue dimensioni. È la creazione di una relazione stretta di amicizia e di amore. Per Paolo, questa relazione con Cristo è assolutizzata al di sopra e al di là di ogni altra cosa. Dobbiamo riconoscere che non lo conosciamo; diciamo di amarlo, ma non lo ascoltiamo.
Il Vangelo sottolinea ripetutamente la missione di Giovanni: essere testimone. Come Giovanni, anche noi siamo chiamati a testimoniare un Dio luce, un Dio luminoso che, nel suo Figlio, ha fatto risplendere la vita, ha dato splendore e bellezza all’esistenza. Testimoni non di obblighi e divieti, ma del fascino della Luce e della Parola che salva. Profeti e testimoni che non pretendono di sostituirsi all’unico Signore, ma che permettono di entrare in rapporto con Lui, per lasciarsi conquistare dalla luce della sua verità e del suo amore.

 

Natale del Signore
IL MISTERO DELLA VITA (Isaia 9, 1-6; Luca 2, 1-14)
di Vito Capano

Leggendo la profezia di Isaia mi sento come gli ebrei ancora in attesa del Messia.
Siamo avvolti in fitte tenebre, siamo tormentati e tristi, perché aggiogati, oppressi, in preda alla violenza cieca. Attendiamo sempre il Principe della pace e la sua giustizia, quel bambino che nascerà per noi, quel figlio che ci viene annunziato. Eppure oggi celebriamo la nascita del Salvatore! Il Signore viene!
Come conciliare il nostro stato d’animo con la fede nella presenza del divino tra di noi, con la sua incarnazione?
Il vangelo di Luca ci annuncia la nascita di questo figlio con alcuni quadri teologici attualizzanti le profezie, veri e propri passi midrascici, una costruzione simbolica per introdurci al racconto di Gesú nella fede dopo l’impatto con il risorto, non è una cronaca storica. Spicca il contrasto tra la grandiosità degli eventi in atto, l’azione del potere imperiale che coinvolge i popoli e un oscuro parto collocato per ragioni scritturali a Betlemme, la città della comunità degli anawim (parola ebraica che significa i poveri che hanno fiducia nel Signore, ndr). Questo racconto ha ispirato san Francesco nell’ideazione del presepio. Probabilmente si trattava della dependance (la stalla) di un alloggio di parenti di Giuseppe. Certo il comune evento di una nascita non aveva particolare risalto al di là di quelle principesche. Solo lo sguardo posteriore del credente ha visto in esso il compimento della promessa divina.
Il suggestivo titolo dell’ultimo libro postumo di Carlo Molari Quando Dio viene nasce un uomo (Gabrielli 2023) mi fa pensare alla interpretazione di Simone Weil e Sergio Quinzio della antica idea cabalistica dell’autolimitazione (tzimtzum) di Dio che si fa carne fragile, mortale*. Questo infante è bisognoso di accoglienza, di cure, di nutrimento; è fragile, esposto a malattie, pericoli; è totalmente dipendente. Questo è il Gesú uomo in cui crediamo e in cui possiamo riconoscerci, un Dio che si affida a noi. Oggi in un’epoca di scarsa natalità nel nostro mondo e di atroci stragi di bambini, pensare alla presenza del divino in quel bambinello ci turba e spiazza.
La luce che avvolge i pastori e la gioia loro annunciata – «È nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» – dilata il quadro della nascita/incarnazione. Proprio a questi emarginati e malfamati, esclusi da ogni culto, è destinato, non casualmente, il primo annuncio lucano!
È questa la pace per gli uomini amati dal Signore. Il segno indicato è proprio quell’infante. Riscoprire nella nascita di un bimbo la presenza del mistero divino, il mistero della vita è stupefacente, fonte di meraviglia e di pensiero, di un pensiero che si lascia condurre alla contemplazione.
In questo bambino possiamo scorgere l’alba di una nuova umanità, abitata da quel Dio che si offre per condurci alla sua immagine, fiduciosi in una trasformazione pacifica che rinnega ogni violenza e sopraffazione. Il compimento iniziato avverrà quando il Cristo sarà «tutto in tutti». I segni della fragilità di cui prendersi cura indicano la strada per vincere le persistenti tenebre che ci avvolgono, ma che non vinceranno la luce che promana da quell’infante. E noi abbiamo occhi capaci di vedere e determinazione per incamminarci?

* Benedetto XVI dirà che Dio ama tanto l’uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore.