La parola nell’anno – gennaio febbraio

IV domenica del tempo ordinario B
RICONOSCERE CHI PARLA CON AUTORITÀ (Marco 1, 21-28)
di Maria Grazia Marinari

Tutti i sinottici narrano diversi incontri di Gesú con persone possedute dal demonio (in particolare, questo episodio compare anche in Lc 4, 1-13, ma non in Matteo). Nel vangelo di Giovanni, invece, il solo riferimento al demonio è quando Gesú chiama «figli del diavolo» gli interlocutori, che si dichiarano figli di Abramo, perché incapaci di accogliere la Verità, Gv 8,44. Già questa considerazione ci permette di pensare che la parola diavolo sia espressione legata alla cultura del tempo e con un significato non identificabile in una persona.
Chi, come me, è figlio del XX sec fa molta fatica a riconoscere l’azione del demonio nella propria vita e in quella altrui. Da una parte siamo cosí permeati dalla cultura illuminista da privilegiare la razionalità umana rispetto alla fede; dall’altra la sacralizzazione, operata nei secoli dalla chiesa sul vangelo, fa sí che in certi riti di esorcismo l’aspetto magico sia preponderante e faccia sottovalutare o addirittura trascurare quello che i vangeli chiamano «spiriti maligni» e che Gesú stesso dichiara impossibili da scacciare, se non con la preghiera (Mc 9,29; Mt 17,21). E anche questa affermazione in sostanza prende le distanze dalla materializzazione del demonio.
Aldilà della indiscutibile difficoltà a decodificare con nostre categorie questo linguaggio, restano almeno tre spunti su cui ragionare e da cui trarre osservazioni anche lontane dal tempo della scrittura.
– Gli astanti sono stupiti dell’autorità con cui Gesú insegna: «Non come gli scribi», noi possiamo solo cercare di captare questa autorità dalle parole umane degli evangelisti, cercando di coglierne l’essenza, per quanto possibile, senza fermarci alla lettera. Ma è un ammonimento al discernimento, fra chi ci parla con autorità e chi ci parla come gli scribi (e ciascuno li identifichi con chi crede).
– L’uomo «posseduto dallo spirito immondo» va oltre lo stupore e riconosce in Gesú «il santo di Dio», temendone lo smascheramento. Gesú infatti è venuto a rivelare il vero volto di Dio per liberarci dalle immagini idolatriche che costruiamo e alle quali, anche nei nostri anni, continuiamo a rinunciare con estrema fatica. Non basta l’impegno a conoscere Gesú, occorre accoglierlo nelle nostre esistenze e questo è molto piú arduo e faticoso del lavoro intellettuale che siamo abituati e disposti a fare.
– La straziante liberazione dell’uomo posseduto convince tutti che, accolta la novità della dottrina insegnata con autorità, si impegnano a diffondere l’insegnamento di Gesú, convinti che operare per il bene può risolvere situazioni che sembravano insolubili. Anche noi siamo chiamati ad accettare la novità, riconoscerla e viverla intensamente liberandoci dall’indifferenza o addirittura dallo stato ipnotico che ci impedisce di vedere.

 

II domenica di quaresima B
VISIONARI DELL’OLTRE (Genesi 22, 1-2. 9a. 10-13. 15-18; Marco 9, 2-10)
di Mauro Stabellini

Il cammino quaresimale si fa irto. Insieme ai tre discepoli che Gesú prende con sé per portarli sull’alto monte, ci siamo anche noi. Condotti là dove il rischio è maggiore, là dove perfino Abramo ha rischiato di perdersi; dove l’amore è lama di coltello affilato di sola fiducia, leggiamo nel brano della Genesi.
Sul monte, con Gesú, ci fu per i tre apostoli un’esperienza di solitudine, nel silenzio. Solo in quello spazio – che a noi manca tanto – il discepolo può essere strappato dal conformismo, da ogni cosa che omologa e appiattisce. Fosse anche la piú raffinata delle religioni. Gesú chiamò allora, e chiama ora, a essere visionari dell’oltre. A sfondare il banale e innamorarci della possibilità. A rinascere figli del silenzio e degli spazi in disparte. Dove la vita rifulge di luce viva: quella di cui fu avvolto Gesú, nella particolare esperienza che anticipava la passione e la Pasqua. Si viene alla luce solo passando attraverso la ferita; la vita trova luce solo nel taglio fecondo di una donna, o tra le stimmate dei chiodi. La Luce, che presto si sprigionerà nella Pasqua, avvolgerà anche noi se accoglieremo – alla scuola di Mosè – la libertà che si impara dal deserto, attraversando le acque di qualunque mare che voglia sommergere e soffocare la bellezza dell’Evangelo.
La Pasqua – come indica la visione di Elia – ci abbaglierà di profezia, unica malattia che debilita il potere, sfianca la rigidità delle istituzioni, anche religiose, corrode le sicurezze. Ma – ricordiamoci – siamo in cammino. Non possiamo fermarci: l’Evangelo ci spinge fuori, lontano; non ci permette di costruire tende o capanne, o chiese in cui restare beati. Ogni cosa che si ferma è già morta: un pensiero, un amore, anche un dogma. Siamo gente di esodo, fino a che morte non sopraggiunga a regalarci nascita definitiva. Fermarsi è interruzione di rinascita.
Che l’appartarci, in silenzio, ci renda cuori ascoltanti, come chiese Salomone: che ci sia sempre la misericordia di una nube a metterci in guardia, ad accecare la presunzione di fidarsi solamente di quello che si vede. Che si sappia ascoltare, affinando l’udito del cuore; che ci si innamori della Parola. Come i tre amici sul monte quando non videro piú nessuno, essere discepoli che inizino ad ascoltare il vento, la pioggia e il sole; il pianto di un bimbo, le carezze di una donna. Per ascoltarlo i discepoli sono costretti a seguirlo: la sequela non è un fine, ma il mezzo per garantire la possibilità dell’ascolto. Scendendo dal monte, i tre amici imparano a cogliere nel quotidiano frammenti di quella luce che li avvolse lassú. Lo straordinario non può essere lo stile normale della nostra fede. Sarebbe una fuga. Il quotidiano è un impegno piú duro.
Gesú, incarnandosi, ha scelto il quotidiano. Anche se è vero che l’esperienza straordinaria lascerà un vivo ricordo nello spirito di quei tre. Se il monte della Trasfigurazione è figura di quello del Golgota, comprendiamo meglio che cosa sia la vita: essa talvolta avanza in salita, ci trascina su luoghi impervi, ci obbliga a camminare a lungo, spesso segnati da fragilità e da fatiche. Meglio sarebbe contemplare la bellezza e la luminosità: «Rabbí, è bello per noi stare qui!».

Pietro offre una soluzione di stallo: afferrare il sacro, congelare l’esperienza, rimanere sul monte, ossia interrompere quella sequela che comincia ad assumere tratti drammatici e non calcare quella strada che porta alla croce» (Annalisa Guida).

È tutto splendido quando stai bene, sei soddisfatto, ti senti compreso e apprezzato. Ma il Vangelo è imperioso e diretto: «Ascoltatelo!». Ascoltate Lui, non voi stessi o le vostre presunzioni! Oggi piú che mai attuale: ascoltate Lui sia nella fede sulla sua identità, sia nella fatica di credere quando non si riesce a vedere e si è avvolti dall’oscurità, come oggi, in questo tempo buio. Il discepolo ascolta e segue Lui nella salita e nella discesa verso il quotidiano. E non pensiamo che scendere sia una passeggiata! Chi ha esperienza di montagna sa che scendere obbliga a frenare, si deve fare piú forza con le ginocchia. La vita è cosí, non si svolge quasi mai in linea orizzontale, piana. La liturgia odierna ci fa salire in alto fino a contemplare per un istante la bellezza della luce del Maestro, ma poi ci riporta giú, là dove il quotidiano attraversa anche il Calvario.
Tutto questo non per ostentare il dolore come fatto positivo, o la sofferenza come ineluttabile destino; semmai per ricordarci che nel Signore Gesú, nel suo abbandono tra le braccia del Padre, ci può essere un senso a tutto ciò, prima di giungere alla rinascita. Come dice Agostino nel commento al Vangelo di Giovanni:

Se in Cristo riconosci soltanto la divinità, rifiuti la medicina che ti ha guarito; se riconosci soltanto l’umanità rinneghi la potenza che ti ha creato. Se egli si è umiliato fino alla morte di croce, ha sospeso la potenza per manifestare la misericordia (Francesco Machí).