MODIGLIANI

di Erminia Murchio

«Quel ragazzo ha dentro di sé qualcosa di nuovo. È molto diverso dagli altri. Di Modigliani sentiremo riparlare».

Aveva visto giusto l’autorevole, «monumentale, solenne» (Di Capua) e ormai anziano Giovanni Fattori che l’aveva avuto come allievo. Uno dei pochi maestri di quello che sarebbe diventato un artista del tutto originale, unico, «senza maestri, né seguaci», grazie al suo talento naturale e a una continua ricerca del bello e della sintesi di quanto in campo artistico l’umanità aveva prodotto: nelle varie epoche storiche e nelle diverse culture/continenti; dalla classicità mediterranea all’arte tribale africana o a quella asiatica; dalla pittura rinascimentale italiana alla scultura egizia; dal colorismo veneto all’arte khmer; dall’arte primitiva alla sapiente, attenta e sensibile osservazione e comprensione delle più moderne correnti artistiche della contemporaneità.

 

Fragile e maledetto

La mostra MODIGLIANI, presso Palazzo Ducale a Genova, rappresenta una preziosa occasione per ammirare una sessantina di opere – fra dipinti, disegni e acquerelli – di uno degli artisti più amati del Novecento, riconoscibile sempre, proprio perché diverso; inoltre, ci consente di entrare nella sua vita, negli ambienti frequentati e nel clima respirato, vissuto e alimentato dallo stesso artista livornese, in particolare, nella vivacissima Parigi dei primi due decenni del secolo scorso.

Sin dall’infanzia il bellissimo Amedeo è destinato a vivere in una perenne dicotomica situazione: il tema del doppio, della sintesi degli opposti, è già dentro il suo fragile fisico, minato da ripetute pleuriti che gli lasceranno in eredità la tubercolosi (una delle cause della sua vita sofferta e della sua prematura morte). Nasce in Toscana e da quella terra, dal suo essere italiano, trarrà la base, le radici, della sua ampia cultura generale, della sua innata eleganza e bellezza, della sua introiettata sensibilità per le forme, le linee, le immagini (ma anche i colori), però è di famiglia ebrea, colta e benestante, ma non totalmente garantita dalle grandi o piccole discriminazioni e distinguo che sempre hanno toccato (tragicamente, pesantemente o meno) gli appartenenti a tale cultura. Padre italiano e madre di origine francese che incoraggerà il figlio nella sua propensione alla pittura.

Vocato a trasformarsi o, meglio, a essere a un tempo Angelo (Dedo, così chiamato da tutti nella sua terra natale) e Demone (Modì-maudit), cioè l’uomo che si autodistrugge per via degli eccessi di alcol, droga, liti e donne. Non solo per questi comportamenti, vedremo più avanti, quanto questo suo destino di maledetto sia anche una conseguenza del suo stesso talento e della sua estrema, pura e furiosa ricerca di un proprio stile personale, di una sua specifica espressione artistica che, a suo parere, non può e non deve essere una mimesis. L’arte come missione, «il dovere doloroso» insito nella bellezza; come ebbe a scrivere lo stesso Modigliani con lucida consapevolezza di sé e della sua scelta di vita.

 

Nel fervore di Parigi

La tradizione dell’ebreo errante, in qualche modo, si riprodurrà nel giovane Modigliani che non si fermerà alla scuola dei Macchiaioli (Livorno), ma si sposterà a Roma, Napoli, Firenze (Scuola di Nudo), Venezia (Istituto di Belle Arti), prima di approdare (1906) nel fervore creativo della Parigi d’inizio secolo, ove resterà definitivamente dal 1909.

S’immerge a pieno titolo nella bohème della capitale francese, in quei quartieri (Montmartre e Montparnasse) ove gli artisti, provenienti da tutta Europa (Picasso-Spagna; Chagall-Russia) e da tutti i continenti (Diego Rivera dal Messico; Fujita dal Giappone) vivono e lavorano negli stessi edifici (Bateau Lavoir; Ruche), condividendo alloggi, atelier, studios, nonché caffè, bevute, fame, assenzio e, qualche volta, anche le donne, sicuramente in quanto modelle e muse, ispiratrici o protettrici.

Stringerà amicizie e legami più forti con lo scultore rumeno Brancusi (che copierà con ammirazione durante il suo periodo di scultore) e con altri giovani ebrei scappati dai loro paesi, «sradicati, nomadi della cultura» (Francesca Castellani), inquieti, innovativi, che lasceranno il segno nella storia dell’arte: l’estroverso Soutine (dalla Lituania) e Moise Kisling, polacco, l’unico di cui troviamo opere in questa mostra, per la presenza di quadri misti, ove si riconoscono facilmente i due stili completamente differenti.

Altrimenti, è una mostra di e su Modigliani, solo sua.

A cent’anni esatti da quella prima personale a Parigi, promossa e organizzata per lui (presso la famosa galleria di Berthe Weill) dal mercante, poeta e collezionista Zborowski, grazie al quale aveva potuto contare su uno stipendio, uno studio, la fornitura di modelle, strumenti e materiali, nonché un’accoglienza nella di lui casa, che andava al di là del rapporto professionale. La prima (1917) aveva suscitato scandalo per la presenza di quei nudi così palpitanti, carnali e sublimamente astratti, sfrontati e puri nello stesso tempo, al punto di costringere la Weill a sottostare alle ingiunzioni dell’autorità di pubblica sicurezza, a chiuderla e a riaprirla successivamente con adeguamenti. Questa, invece, ci emoziona e commuove nel rivivere il percorso tormentato, ma felicemente fruttuoso, di un artista «intensamente moderno e intensamente antico»

 

Il Duomo di Firenze sulla Senna

È veramente bella e importante questa mostra genovese che Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura e Mondo Mostre Skira hanno organizzato, affidandone la curatela a Rudy Chiappini, Dominique Vieville e Stefano Zuffi, e per vari motivi: la scelta sapiente delle opere; il loro parlante allestimento (Corrado Anselmi) che le trasforma in personaggi veri e vivi che ci accolgono sala dopo sala; il giusto equilibrio fra riproduzione di ambienti di vita e di lavoro di Modigliani (storia, biografia) e l’esposizione della sua inconfondibile arte.

Si è formato in Italia Modì (troppo lungo il suo cognome per la Ville Lumière) e nelle sue pitture troviamo Michelangiolo (parallelismo fra le Sibille della Cappella Sistina e le sue Cariatidi), Raffaello, Leonardo, Botticelli, ma anche Giovanni Pisano (a Genova il monumento funebre a Margherita di Bramante), Francesco Laurana (napoletano del Quattrocento che sembra degli anni Venti/Trenta), Parmigianino, Pontormo, Giorgione, Tiziano, Bellini e, ovviamente, Piero della Francesca (pittore mentale per eccellenza, perfetto nelle forme e nella luce), per non tralasciare l’importanza della grazia e eleganza delle linee curve della pittura senese. Insomma, anche dopo L’Ecole de Paris e la partecipata osservazione/studio delle varie correnti moderniste, dopo aver volontariamente accolto in sé gli influssi di Toulouse Leautrec, Matisse, Cézanne e dello stesso Picasso, rimane fedele a sé, alla sua ricerca di sintesi e di fusione, si rifiuta di firmare il Manifesto dei Futuristi e non aderisce ad alcuna corrente.

Conduce vita molto sociale, come uomo, compagno di bevute e discussioni filosofiche, di chiacchiere, declamazioni di poesie e liti, anche furibonde; si manterrà, invece, unico, solo e isolato come artista. Il suo stile racchiude molto e molti, ma rimane il suo: la ricerca di una forma e di una linea pura, essenziale. Non a caso, il poeta Salmon ebbe a dire: «quella forma eccelsa che sempre dipingevi / intatta ha seguito la sua essenza, Modigliani! /… il Duomo di Firenze si specchiava sulla Senna».

 

Desiderio, possesso, astrazione

Dice di non amare l’astrazione e non dipinge i paesaggi (uno solo in mostra, opera di Amedeo quattordicenne), la sua centratura è su figure e volti («ho bisogno del soggetto vivo davanti a me»), ricerca quasi una fusione con il modello, per ciò privilegia le donne (non necessariamente amanti, ma amiche o mecenate, sì) e suoi colleghi, amici, mercanti; «dipingerò i tuoi occhi quando coglierò la tua anima».

Anche nei quadri in mostra si percepisce questo rapporto stretto con i personaggi, le persone che dipinge, di cui porta sulla tela sentimenti e personalità.

Può risultare contraddittorio, non gl’interessa il ritratto realistico, punta all’essenzialità, gli occhi sono senza pupille, lievemente asimmetrici (mandorle cieche), le forme del collo, viso e naso sono allungate, anche le linee del corpo sinuose, ruotate, sono pura immagine, vuole che ci si scordi dell’IO (Di Capua). Ma di fatto, tocca l’anima dei suoi personaggi, la prende in sé e la offre a noi, restituendo loro la propria individualità, proprio nel momento in cui riesce a creare delle figure quasi ieratiche, pur nella fisicità carnale e sensuale della rappresentazione; questa considerazione vale soprattutto per i nudi, ma non solo: «dipingere una donna è come possederla».

Introduce nella pittura il desiderio, è vibrante, palpabile, ma è sublimato nella purezza della forma: il corpo diventa lo scoglio contro cui s’infrange il desiderio.

Quindi, da grande pittore figurativo quale è, raggiunge anche l’astrazione.

 

MODIGLIANI
Genova – Palazzo Ducale, dal 16 marzo al 16 luglio 2017.