Pipetta, m’hai inteso davvero?

di Ugo Basso

 

Ci sono testi che ogni tanto ho bisogno di rileggere, oltre alla Scrittura e ad alcuni grandi classici, perché pietra di paragone al pensare e all’agire quotidiano: uno di questi la lettera del 1950 con cui si apre l’epistolario di don Lorenzo Milani (1923-1967) nella prima edizione mondadoriana. È la lettera, notissima, a Pipetta, «un giovane comunista di San Donato»: ogni volta rileggo con emozione, e avverto di averne dimenticato e trascurato qualche passaggio.

All’epoca i comunisti erano scomunicati, il nemico che avrebbe eliminato non solo la chiesa, ma la stessa religione, e un prete che tenesse rapporti con un militante del PCI era guardato con sospetto, un sospetto al quale certo non sfuggiva don Milani di cui sono noti i guai con l’autorità religiosa. Il 18 aprile 1948 le prime elezioni repubblicane della nostra storia hanno dato la vittoria alla Democrazia Cristiana dopo una campagna combattutissima tra lo schieramento liberale e cattolico e l’alleanza fra comunisti e socialisti in cui la chiesa si era schierata a sostegno del partito cosiddetto cattolico impegnando vescovi e preti anche nella predicazione e nelle confessioni.

Di questo Pipetta, destinatario della lettera di cui è pubblicata la minuta, credo non si sappia piú di quanto è scritto qui: giovane comunista, prigioniero durante la guerra e ora impegnato in azioni rivoluzionarie anche illegali. Anticlericale, «dei miei fratelli preti ne faresti volentieri polpette», Pipetta ogni volta che incontra don Lorenzo gli dice però «che se tutti i preti fossero come me, allora…». «Non mi dire, Pipetta, ch’io sono l’unico prete a posto. Tu credi di farmi piacere. E invece strofini sale sulla mia ferita».

Nel 1948 don Milani ha venticinque anni: prete da un anno, si sente consacrato annunciatore e testimone del vangelo cioè strettamente solidale con i poveri: non per farli ricchi, ma per aprirgli il Paradiso. «Solo questo il mio Signore m’aveva detto di dirti», ma non può dirlo chi non è povero e non denuncia e combatte le ingiustizie della società. Pipetta è qui un amico e insieme simbolo di chi combatte per il pane: a lui è rivolto il vangelo e con lui deve stare chiunque vuole esserne testimone.

La condizione della sua vita impone che gli si perdonino mille torti, fino a quello di impugnare le armi, ed è dovere essere con lui anche nello sfondare «la cancellata di qualche parco, reggia del ricco»: dall’altra parte don Lorenzo si sente sconfitto dalla vittoria del 18 aprile, vittoria di quella che dovrebbe essere la sua parte, il partito dei preti come si diceva, ma per lui è la vittoria di chi vuole conservare i privilegi della borghesia e non edificare la società solidale immaginata dalla costituzione entrata in vigore proprio il 1° gennaio dello stesso 1948.

Parole fastidiose incendiarie, che cerchiamo di spegnere riconoscendole paradossali, generosa espressione di radicalismo giovanile: non bisogna esagerare, caro don Lorenzo, magari senza arrivare a dar ragione all’arcivescovo che non conosceva questa lettera, ma condannava le prese di posizione di don Lorenzo. Perché non cercare di vincere e non godere della vittoria, naturalmente dalla parte del bene? Occorre riconoscere la necessità delle mediazioni, dei compromessi, delle alleanze non sempre limpide: non si può sempre stare all’opposizione, sempre criticare, sempre denunciare: certo che no, bisogna anche essere solidali, farsi amici, lasciarsi consolare.

In questa lettera inquietano due nodi del pensiero di don Milani: non si può predicare senza essere poveri di una povertà che tocca anche la ricchezza sacrale degli oggetti per il culto oltre che quella privata; non si può stare con i vincitori perché questo comporta comunque solidarietà con il potere, con l’inevitabile arroganza; comporta venire a patti con la coscienza. Una affermazione cosí ci fa ammutolire nella vergogna di quello che diciamo sui poveri, ma può scendere anche risposta piú morbida: per esempio trovare un equilibrio fiscale tra chi impone tasse e chi le paga. Se poi accade che «la storia ci si butti contro» e ci faccia trovare con i vincitori – a noi però pare che la storia ci si butti contro quando si perde, non quando si vince! –, dei vincitori occorre essere la coscienza critica, non giustificare mai scelte di compromesso e non tollerare corruzione e inadempienze. Un pensiero severo che si può non condividere. È difficile però negare che la bussola del vangelo indichi quella direzione.

«Se vincevi te, credimi, Pipetta, io non sarei piú stato dalla tua. Ti manca il pane? Che vuoi che me importasse a me, quando avevo la coscienza pulita di non averne piú di te, che vuoi che me ne importasse a me che vorrei parlarti solo di quell’altro Pane che tu dal giorno che tornasti prigioniero e venisti colla tua mamma a prenderlo non m’hai piú chiesto
[…] Ora che il ricco t’ha vinto col mio aiuto mi tocca dirti che hai ragione, mi tocca scendere accanto a te a combattere il ricco […] Quando tu non avrai piú fame né sete, ricordatene, Pipetta, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno d’un sacerdote di Cristo: “Beati i… fame e sete”».