Prima il malato

di Manuela Poggiato

Ricordando Silviano Fiorato

Qualche settimana fa ho fatto parte di una commissione d’esame per l’assunzione di un medico ospedaliero. In queste situazioni, ormai consuete per me dopo anni di attività come internista in un reparto di Medicina, la prima cosa a cui penso è se io sarei ancora capace di superare un concorso. Le cose, da quando ho partecipato al mio, sono molto cambiate: è evidente, cambiano continuamente sotto i nostri occhi e si dice che un medico per stare al passo con l’aggiornamento scientifico debba cambiare completamente ogni cinque anni il proprio bagaglio di conoscenze. Ecco perché esiste l’Educazione Continua in Medicina – la cosiddetta ECM – il cui scopo è indurre un cambiamento.
Quando il mio primario ha chiesto al candidato di descrivere la gestione di un malato con sospetto scompenso cardiaco che dal Pronto Soccorso accede in reparto, ho pensato a che cosa avrei risposto io se fossi stata dall’altra parte.
Io…: avrei innanzi tutto guardato in faccia il mio malato e poi gli avrei dato la mano dicendogli il mio nome e chiedendogli il suo. Certo la radiografia del torace, l’elettrocardiogramma e gli esami di laboratorio che aiutano o no a confermare la diagnosi formulata in Pronto Soccorso che è sempre meglio mettere in dubbio pensando con la propria testa, ma prima altro… Sono in controtendenza, certo: tempo fa un amico cardiologo diceva che sono sempre meno i suoi colleghi che amano fare il giro in reparto, la maggior parte desidera fare l’aritmologo, l’impiantatore di PM, l’ecografista. Del malato si vedono bene la forma del cuore, l’attività cardiaca, molto meno l’espressione del viso, gli occhi, i problemi…
Con gli anni sento che le immagini diagnostiche – la TAC ad esempio, considerata essenziale per la diagnosi da chi non sa nulla di medicina e crede invece di conoscere tutto – sono certamente molto importanti, ma guardare negli occhi la persona che abbiamo davanti, capire che cosa pensa, che cosa sa, che cosa vuole sapere della sua malattia, come ha impostato la sua vita e come vuole continuarla è molto piú importante non solo per lui, ma anche per l’andamento del ricovero. Cosí lo sguardo iniziale di un paziente che arriva dal Pronto Soccorso, la precisa raccolta dell’anamnesi, come vive, con chi, le sue abitudini, fino ovviamente alle malattie passate e ai farmaci che assume o non assume, sono essenziali perché è da lí che, nella maggior parte dei casi, viene la diagnosi.
A volte bastano uno sguardo e poche parole come quella notte in cui è arrivato un signore accompagnato dalla badante: lui mutacico, quasi assente tanto che in Pronto Soccorso avevano diagnosticato un danno cerebrale secondario alla cirrosi epatica di cui pur soffriva. Altro che assente: era semplicemente arrabbiato con tutti perché non accettava di essere gestito dalla badante e di avere perso completamente la propria autonomia. Sono bastati pochi istanti, un atteggiamento di ascolto invece che di accettazione passiva di quanto fatto altrove, per capirlo, per gestire meglio la situazione e, cosa piú importante, per ottenere la sua fiducia. Il fatto è che per capire le persone ci vuole non solo una predisposizione d’animo, ma mezzi, collaborazione e tempo. Da quando, specie in ambulatorio, nel corso di una visita di 15 minuti ogni prestazione deve essere gestita al computer, non ho neppure il tempo di guardare in faccia le persone perché o guardo loro o guardo lo schermo del pc.
Mentre il candidato al concorso parlava di radiografie, elettrocardiogramma, funzione cardiaca, io pensavo che al mio malato avrei chiesto con quanti cuscini dorme la notte e se si alza tante volte dal letto per fare la pipí. Perché la diagnosi di scompenso cardiaco si fa ascoltando la storia del malato, non con le indagini strumentali.