Rappresentanza o governabilità

di Ugo Basso

 

È molto inquietante e da non sottovalutare quell’80% di italiani che pare voglia al governo l’uomo forte: non diamoci alla disperazione, forse vorrebbero soltanto dirigenti capaci, competenti e responsabili. Lavoriamo in questa direzione e cerchiamo di sostenere le fragili istituzioni che cercano di mantenere a galla quanto resta della democrazia, nell’accezione cara ad Aldo Capitini, di omnicrazia, la struttura politica in cui tutti vivono al meglio in un tessuto di regole condivise. Due mi sembrano ora i rischi da non ignorare: lo smarrimento del cittadino, alimentato dalle incomprensibili lotte fra gruppi politici, raramente confronti di idee, e da una discutibile informazione e l’autoritarismo che potrebbe esserne lo sbocco. Il cittadino che, per sfiducia e per confusione, non riesce a scegliere o rinuncia al voto, o si affida, con grande volubilità, a qualche personaggio credibile al momento o si abbandona alla schiera di qualcuno accreditato come uomo forte capace di risolvere tutte le difficoltà.

Sappiamo bene che sono problemi coestesi, in forme diverse, a tanta parte del mondo, ma vorrei ora limitarmi alla contingenza italiana, sperando di dare qualche po’ chiarezza e argomenti per le scelte. Vorrei prendere in considerazione due problemi, già accennati in passato: governabilità e rappresentanza. Nella costituzione formale vigente la rappresentanza prevale nettamente e non si avvertono preoccupazioni per eventuali rischi di stallo politico o di impossibilità di costituire un governo in grado di avere la fiducia delle camere. Nel biennio 1946/47 in cui la costituzione ha avuto la sua gestazione, l’Italia usciva da una dittatura che aveva accentrato il potere nel governo e sul suo capo esautorando anche istituzionalmente il parlamento, per cui lo sbilanciamento della nuova carta sul legislativo era considerato garanzia per i cittadini.

Ripercorro l’iter che la costituzione prevede per la formazione del governo. Il presidente della repubblica indice, alla scadenza naturale oppure dopo uno scioglimento anticipato, le elezioni politiche, contemporanee o no per le due camere. Senatori e deputati vengono eletti senza impegni formali sulla formazione del governo: naturalmente nulla toglie che singoli partiti dichiarino in campagna elettorale i propri intendimenti. A elezioni avvenute, il presidente della repubblica nomina a sua discrezione il presidente del consiglio dei ministri, naturalmente scegliendo una personalità politica, non necessariamente senatore o deputato, ritenuta in grado di formare un governo e ottenere la fiducia dei due rami del parlamento. Il presidente del consiglio nominato costituisce il governo e chiede la fiducia al parlamento: se la ottiene, e fin che la mantiene, resta nell’esercizio delle sue funzioni. Il ruolo attribuito dalla carta al presidente è di dirigere la politica generale del governo di cui è responsabile, mantenere l’unità di indirizzo politico, promuovere e coordinare l’attività dei ministri che sono responsabili collegialmente degli atti del consiglio dei ministri (art. 95). Dunque nello spirito della costituzione anche per il presidente del consiglio un ruolo definito.

Nella cosiddetta costituzione materiale, quella di fatto applicata in parte diversa da quella scritta, osserviamo sull’argomento qualche prassi consolidata. La grandissima parte dei presidenti del consiglio nella storia della repubblica ha presentato le dimissioni senza che fosse venuta meno la fiducia del parlamento (crisi extraparlamentari), mentre gli scioglimenti anticipati delle camere, sempre di entrambe, sono sempre avvenuti d’intesa, o addirittura su richiesta, dei partiti. Il capo dello stato fa ritualmente precedere la nomina (incarico) del nuovo capo del governo da una piú o meno ampia consultazione di uomini politici e talvolta anche responsabili del mondo sindacale e finanziario. La posizione del presidente del consiglio si è rafforzata all’interno del governo ridimensionando in parte il ruolo dei singoli ministri e anche la collegialità delle decisioni dell’esecutivo. Ma soprattutto dal 1994 è stato di fatto accettato che nei simboli elettorali dei partiti presenti sulla scheda comparisse il nome del cosiddetto candidato premier con una forzatura della costituzione e con una esautorazione del potere del capo dello stato che, tuttavia, in alcuni casi (nei recenti governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni) non ne ha tenuto conto, comportandosi in coerenza con la costituzione scritta.

Un altro ordine di questioni è la legge elettorale. La costituzione non sceglie un sistema elettorale che quindi può essere cambiato senza modificare la carta, ma è chiaro che la qualità della legge elettorale ha delle ricadute importanti sulla formazione delle camere e può addirittura accadere, come nelle recenti elezioni americane, che il vincitore non abbia la maggioranza dei voti popolari, per regole di calcolo che è impossibile ricostruire qui.

In grande sintesi, per arrivare al problema di oggi: per molti decenni in Italia si è votato con un sistema proporzionale; dal 1993 si vota con la legge giornalisticamente nota come mattarellum perché Sergio Mattarella l’aveva presentata alla camera: si tratta di un sistema complesso, comunque misto, in parte proporzionale e in parte maggioritario; nel 2005 l’alleanza di destra approva una legge, dichiarata incostituzionale dalla corte costituzionale nel 2014, nota come porcellum – cosí l’aveva definita il suo stesso presentatore Roberto Calderoli –, una legge con premio di maggioranza e senza voti di preferenza per dare ai partiti la facoltà di scegliere i membri del parlamento. Questa legge ha garantito la governabilità fino a quando gli schieramenti sono stati due, ma, quando alle elezioni del 2014 sono diventati tre, ha garantito la maggioranza alla camera, ma non al senato e, comunque, è stata cassata dalla corte costituzionale. La nuova maggioranza PD-NCD ha approvato nel 2015 una nuova legge, nota come Italicum, una revisione del porcellum, ma essa pure dichiarata parzialmente incostituzionale nello scorso gennaio e, comunque, approvata solo per la camera, mentre del senato si prevedeva quella modifica strutturale che avrebbe richiesto altre norme di designazione, respinta dagli elettori. Al momento, e in prospettiva di nuove elezioni, occorre una nuova legge organica e costituzionale. E di questo si sta discutendo.

Una considerazione: le leggi con ampio premio di maggioranza hanno consentito esecutivi di durata maggiore (Berlusconi e Renzi) rispetto alla media dei governi di quella che si suole chiamare prima repubblica in cui le camere erano elette con un sistema proporzionale, ma non mi pare che il paese ne abbia colto grandi vantaggi.

 Vorrei porre ora qualche punto politico che dovrà poi trovare gli strumenti giuridici, cioè appunto una legge elettorale. Premesso che è impossibile trovare la legge perfetta, è da preferirsi un sistema proporzionale, che porta in parlamento senatori e deputati anche molto frammentati ma riferibili alle tante posizioni esistenti nel paese, o raggrupparli ideologicamente (partiti, coalizioni) e immaginare un premio per assicurare allo schieramento con più voti una maggioranza solida? Una rappresentanza parlamentare superiore a quella che spetterebbe con i voti ottenuti dovrebbe favorire la governabilità, cioè assicurare al governo una maggioranza precostituita. La rappresentanza proporzionale – ottenibile con sistemi elettorali diversi, ma che qui non si possono illustrare – assicura una maggiore partecipazione dei cittadini e un piú articolato dibattito, ma potrebbe rendere ingovernabile il paese e costringere a continui ricorsi alle elezioni. Un premio di maggioranza al partito o alla coalizione che ottiene piú voti assicura, dovrebbe assicurare, una maggiore durata al governo, quindi una progettualità su lungo periodo, che però avrebbe una forza parlamentare superiore a quella che lo sostiene nel paese con i rischi evidenti. L’ideale sarebbe tenere insieme rappresentanza e governabilità: la via potrebbe essere un premio limitato e concesso solo allo schieramento che avesse di suo una percentuale elettorale alta in modo di garantire la governabilità, senza alterare troppo i rapporti di forza. E se non ci fosse, come verosimilmente accadrebbe in Italia, nessuna formazione con una percentuale superiore al quoziente necessario per ottenere il premio? La domanda da porsi allora è: meglio un governo che non corrisponde alla volontà politica degli elettori, o meglio un governo a continuo rischio, ma che sia costretto a tener conto della volontà reale degli elettori? Comunque un premio di maggioranza sarebbe meno pericoloso se fosse condivisa l’idea che sovranità popolare significa di tutti, anche della minoranza e non solo alle elezioni, ma sempre. Se scambiamo il dovere di governare con il diritto della maggioranza di fare quello che vuole, a partire dallo spoil system, come con Matteo Salvini sostengono in molti, credo sia ben giusto preoccuparsi che la maggioranza parlamentare sia proporzionale a quella dei cittadini.