Repetita juvant!
di Ugo Basso
Il rischio maggiore che stiamo vivendo – chiedo venia di tornare sull’argomento – è l’assuefazione: alla guerra, almeno fino a quando non ci toccherà; all’inequità, almeno fino a quando riusciamo a stare dalla parte (piú o meno) ricca; al progressivo declino dell’Italia in un regime che regressivamente ci porta a un’egemonia culturale di marca governativa; alle dirigenze affidate ai nostri anche se incompetenti; alla dissoluzione dello stato sociale, quel welfare che avremmo sperato di migliorare e comunque per decenni ha dato tranquillità al nostro quotidiano.
Il canto del gallo, ben oltre quello delle nostre pagine, chiama per un verso a non presumere quello che non siamo capaci di fare («Signore, per te sono pronto ad andare in prigione e alla morte», Lc 22, 33), per un altro a non venir meno alle responsabilità, anche piccole. Non dimentichiamo che il celebre racconto finisce con il pianto di Pietro: vediamo di provvedere perché non diventi anche il nostro.
Il clima politico di oggi è segnato da una campagna elettorale senza interruzione che consente un linguaggio aggressivo fatto di promesse per catturare elettori che preferiscono illudersi che pensare. Un contesto in cui è destinato all’insuccesso qualunque tentativo di persuasione, di ragionamento informato e argomentato: non è apprezzato chi vale e opera costruttivamente e respinto chi disperde e determina i fallimenti con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi. La politica nel nostro paese – e forse non solo – non è ragionare insieme, confrontarsi sulla fattibilità del bene comune, sui costi e su chi li paga, su come effettuare i controlli, dalla manutenzione dei ponti alla sicurezza sul lavoro: chiamiamo politica non la scelta del candidato piú capace, ma di quello che appartiene al partito che vuole imporre i suoi giochi; chiamiamo politica la sottoscrizione di dichiarazioni, non l’appello ai valori. È chiara la tentazione di non votare: pessima, ma comprensibilissima scelta.
Ancora ricordo che la maggioranza di governo ha il dovere di amministrare, di governare, non il potere di cambiare ai propri fini i fondamenti dello stato e anche, con un astensionismo cosí alto, la maggioranza vincitrice delle elezioni è espressa da meno del 30% degli italiani. Confesso che mi ha fatto piacere – un piacere un po’ campanilista – aver letto in un’analisi delle scelte religiose degli italiani che fra i frequentanti abituali della messa festiva la percentuale degli astenuti è piú bassa della media nazionale.
Riprendo ancora una questione esemplare, tanto discussa. L’elettore ha il dovere di accertarsi che il candidato per cui vota abbia dimostrato nel suo passato politico e professionale le competenze per svolgere il ruolo per cui si candida e se, una volta eletto, assumerà la carica. Paradossale e banale insieme, certo demotivante per l’elettore che pensa: ci sono personaggi, e parliamo di nomi illustri, se no l’inganno non avrebbe senso, che si candidano in diversi collegi – ed è male che la legge non lo impedisca – senza nessuna intenzione di rivestire il ruolo a cui saranno eletti, in particolare nelle elezioni europee, ma non solo. Questo significa che l’elettore invece di scegliere, delega al prestigioso capolista la scelta di chi ricoprirà il ruolo, che sarà certamente della sua scuderia. E aggiungo che le macchine elettorali dei partiti sostengono le loro bandiere, le preferenze per i capilista, ancora riducendo la possibilità di scelta degli elettori.
Resta l’invito pressante all’informazione non solo quella controllata dal governo e a porsi domande, sulla finalità e sull’efficacia dei provvedimenti, sulle competenze di chi è chiamato a ruoli dirigenziali o politici, sugli abusi, sulla corruzione, naturalmente cominciando a non essere complici. Ci si può sempre provare, convinti con il poeta che «la tenue luce baluginata laggiú / non era quella di un semplice fiammifero».
Repetita juvant, diceva la saggezza latina. Speriamo.