Un testamento d’amore

di Giancarlo Muià

 

Agnello immolato, sangue sugli stipiti delle porte, e, per i primogeniti d’Egitto, flagello di sterminio, per fare giustizia di tutti gli dei d’Egitto e affinché il Faraone si convincesse a lasciare partire il popolo di Israele. È la pasqua nel primo testamento (Es 12). Una pasqua mangiata con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; una pasqua da mangiare in fretta. Nell’evangelo di Giovanni, invece, uno solo si alza dalla tavola, depone le vesti, si cinge attorno un asciugamano e, subito dopo, lava i piedi ai suoi discepoli. È un gesto da servi, o forse da donne, cosí come aveva fatto nei confronti del Maestro, Maria Maddalena, nell’episodio dell’unzione di Betania. Come? Un maestro che lava i piedi ai discepoli? Normale e giustificabile l’obiezione di Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!».

Un maestro che, seduto a tavola, non ama farsi servire, ma si accinge, come un padre o una madre a servire i suoi figli. Il Maestro prende il pane, lo spezza, e con parole d’affetto lo distribuisce a ciascuno. Prende il vino e fa altrettanto. Non c’è carne dell’agnello sacrificale, non c’è sangue sugli stipiti. Il sangue verrà dopo e sarà uno solo a versarlo.

Un maestro, talmente attaccato ai soldi, da affidare la cassa a un ladro. Un maestro che aveva rifiutato il potere per cui il diavolo l’aveva tentato nel deserto; un maestro che, con quel «date a Cesare quel che è di Cesare», aveva posto una netta separazione tra le cose di Dio e quelle degli uomini, tra la fede e il potere.

Un maestro che aveva rovesciato l’ordine delle cose:

…i governanti delle nazioni dominano su di esse e i capi le opprimono. Tra voi non sarà cosí; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo (Mt 20, 25-27).

 

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